OPINIONI

I mercati bocciano chi non ha soldi e taglia, non l’auto elettrica

Gli investitori in un mondo dai tassi d’interesse elevati non fanno i regali che in altri tempi hanno consentito a startup e a interi settori di uscire allo scoperto

Difficilmente in futuro troveremo un altro periodo altrettanto adeguato come quello attuale a dimostrare che nel 2024 nell’industria dell’automobile sono determinanti i soldi e la taglia. Gli utili, i margini su ogni veicolo venduto, così come le dimensioni e la scala di un gruppo contano tanto quanto nei periodi più incandescenti della storia industriale.

In una fase così darwiniana come l’attuale, che ha visto un precedente simile forse soltanto nel primo ventennio del Novecento, persino avere alle spalle solo uno dei due pilastri citati, potrebbe non essere sufficiente a garantire la sopravvivenza.

E ci sono pochi segnali in questa direzione tanto chiari quanto quello che ha dovuto decidere l’amministratore delegato Renault Luca de Meo in questa settimana che sta andando in archivio, annullando la decisione di procedere all’IPO della divisione Ampere, creata per occuparsi di auto elettrica e software.

Ma una offerta pubblica iniziale di dimensioni così rilevanti era collocata dopo un 2023 che è stato, secondo i dati di Bloomberg, il peggior anno in un decennio per gli IPO, coincidendo con la fase peggiore degli effetti dei rialzi dei tassi da parte delle maggiori banche centrali occidentali. Ampere era attesa come uno degli IPO maggiori recenti e in cerca di €10 miliardi, quasi la capitalizzazione della casa madre Renault.

Sarebbe facile ma anche superficiale liquidare il dietro-front su Ampere come un caso di vendita senza successo di ghiaccio agli eschimesi: mercato sbagliato, momento sbagliato. Perché la situazione in effetti è più complessa e merita un maggiore approfondimento.

In particolare va sottolineato che la logica di de Meo conteneva almeno un importante richiamo: vale a dire, è davvero raro presentarsi agli investitori con una direzione così chiara come quella proposta con la distinzione tra vecchio business (la divisione battezzata Horse e nuovo business (appunto Ampere) di una azienda, uno predominante ma in declino, uno in gestazione ma a cui appartiene il futuro.

E a ben guardare non si tratta neppure di un azzardo peculiare della strategia del manager italiano: il suo omologo Jim Farley con il gruppo Ford ha già modellato la struttura della casa di Dearborn con tre divisioni, Ford Pro per i veicoli commerciali, Ford Blue per il business tradizionale e Ford E per l’auto elettrica.

Ma proprio dalla struttura voluta da Farley è emerso nei minimi dettagli un aspetto che peraltro ogni imprenditore può immaginare con largo anticipo, ovvero che la divisione che richiede più spese in conto capitale, ricerca e sviluppo (ovviamente Ford E) sarà quella i cui conti saranno maggiormente in rosso, .$1,3 miliardi secondo l’ultima trimestrale pubblicata, in attesa di prendere dimensioni e volumi di vendite in grado di recuperare gli investimenti.

Proprio a questo punto diventano interessanti le opinioni che informano la strategia aziendale attuale e futura di Carlos Tavares. Il numero uno di Stellantis durante una lunga intervista ad Albertina Torsoli di Bloomberg si è soffermato su alcune proprie convinzioni molto radicate: anzitutto come i suoi colleghi di Detroit è certo che debba essere la capacità di generare utili dell’auto tradizionale a pagare per l’auto del futuro.

In quest’ottica è un clamoroso auto-gol, secondo Tavares, separare quello che guadagna da quello che a causa di grandi investimenti non guadagna, anzi è in rosso. Il fatto di non aver voluto segnalare le voci in rosso e quelle in nero nei conti Stellantis si giustifica col fatto che un gruppo auto debba essere una sola squadra con una direzione di marcia ben precisa, pronta ad approfittare dei meccanismi di scala, che ben si vedono nel dispiegamento delle piattaforme STLA e nei lanci di elettriche recenti, ultima Lancia Ypsilon, strettamente imparentata con Peugeot E-208 e Opel Astra.

Le scelte di Tavares appaiono alternative alla politica dello “spezzatino” intrapresa da Renault ma anche da altri, ad esempio il gruppo Geely e dalla controllata Volvo Car con Polestar. Questo anche perché ai vertici Stellantis sono convinti, e l’amministratore delegato lo ha esplicitamente menzionato nelle sue interviste, che con l’avanzata delle case cinesi all’orizzonte e le nuove politiche di salari più alti partite dalle rivendicazioni del sindacato americano UAW ci sono più ragioni di prima per nuove fusioni amichevoli, piuttosto che per procedere a “spezzatini”.

Ma quello che non va perso di vista è che questo è possibile per chi ha soldi, per chi ha buoni utili e margini: Stellantis ha non solo ricavi quattro volte maggiori di quelli Renault, ma la sua profitability è 12 volte quella del gruppo della losanga. Per chi non ha quei margini sui veicoli venduti, per chi non fa quegli utili, ci sono poche alternative all’andare sul mercato, e l’IPO in questo caso appare una scelta priva di alternative e in questo periodo, come abbiamo visto, complicata.

Chi ha già preceduto Ampere, ad esempio Polestar che è nata come spin-off di modelli solo elettrici del gruppo auto Volvo, peraltro sconta il fardello di lanciare nuovi prodotti a livello globale e la difficoltà a raggiungere volumi previsti e i conti non brillanti che ne derivano hanno spinto il maggior investitore svedese alla decisione difficile di ridurre la presenza nell’azionariato, malgrado abbia appena presentato conti record nella sua storia.

Va rimarcato che Polestar non è stata nemmeno una casa auto particolarmente spericolata dal punto di vista delle spese in conto capitale e della ricerca e sviluppo, nonostante questo avrà ancora bisogno di altri $1,3 miliardi di fondi per arrivare nel 2025 al punto di pareggio.

Polestar sul versante ricerca e sviluppo ha collaborato in profondità con Volvo, mentre la si può anche considerare una azienda relativamente asset light dal punto di vista industriale: i suoi modelli infatti sono costruiti nelle fabbriche già esistenti di Volvo e soprattutto di Geely.

Ma questo per ora non è bastato e a questa startup attualmente mancano entrambi i pilastri indispensabili alla sopravvivenza, profitti e volumi, e per questo Geely ha deciso di prendere il posto di Volvo Car. Geely ha venduto quasi 2,8 milioni di veicoli lo scorso anno, un totale che equivale a quattro volte quello Volvo

I nuovi progetti, che essendo nuovi non potevano che concentrarsi nella direzione nella quale va il futuro, quella della mobilità a zero emissioni locali, appaiono destinati a soffrire se non saranno in grado di trasmettere ai mercati la certezza che ci siano alle spalle adeguati conti ed adeguate dimensioni in grado di fare da scudo ai venti contrari.

Si può a questo punto anche porre la domanda se non si tratti di un disamoramento permanente dei mercati per l’auto elettrica in generale, identificando nel settore una delle ricorrenti bolle che contraddistinguono Wall Street e le altre piazze finanziarie.

In effetti lo stesso metro e la stessa ricerca di certezze vale per ogni altro settore, non solo per i progetti sull’auto elettrica. Soltanto il settore dell’intelligenza artificiale attualmente sembra affascinare gestori e money manager a sufficienza da far loro mettere da parte la prudenza.

Tutto il contrario vale in altri campi che circa un decennio fa invece entusiasmavano gli investitori, come ad esempio quello della guida ad elevata automazione e quello dei robotaxi.

Nella presentazione della trimestrale, pochi giorni fa, General Motors ha messo un altro paletto allo steccato che sembra ormai aver circondato le prospettive di immediata applicazione del settore: Mary Barra ha deciso di risparmiare $1 miliardo dal budget destinato alla società dei robotaxi Cruise, caduta in disgrazia dopo un incidente a San Francisco che ha confermato gravi lacune nel software e nella gestione aziendale delle emergenze.

E questa settimana la società della fornitura Aptiv ha improvvisamente deciso di tagliare la propria quota azionaria in Motional, la joint venture lanciata in collaborazione con Hyundai che proprio a sviluppare e diffondere robotaxi e guida ad elevata automazione sta lavorando.

Non è ancora chiaro se ora Motional continuerà con il solo supporto di Hyundai, che potrebbe permetterselo avendo superato Samsung Electronics come azienda coreana autrice dei maggiori profitti, oppure se decideranno di farne a meno e contare sul solo supporto di settore dell’altra startup asiatica 24dot, appena diventata divisione interna del gruppo.

Soldi e taglia come faro per i mercati sono i due fattori a cui guardare in questi mesi per capire se un gruppo appare destinato a navigare in acque tranquille oppure affrontare tempeste. E dopo tutto investitori così impazienti come gli attuali non erano disposti a lasciar passare tutto nemmeno nei momenti d’oro dell’easy money e dei tassi a zero. Ce lo ricorda un altro settore che prima della guida autonoma e dell’auto elettrica attraeva flussi di denaro esorbitanti: quello del ride hailing.

Ora sembra passato un millennio, ma la startup dei taxi privati Uber per oltre un lustro ha continuato a drenare soldi freschi sui mercati mentre si espandeva a macchia d’olio avendo nella propria bussolo la ricerca di un inquietante monopolio globale nella mobilità, con fior di esperti che se la immaginavano soppiantare i grandi gruppi auto, ridotti a meri fornitori.

Da allora di tempo ne è passato, gli investitori prima travolti dalla sindrome FOMO (la paura di arrivare tardi su un buon affare), si sono stufati. I taxi privati ci sono ancora, la bolla si è esaurita. Sembra un’anticipazione del futuro percorso dell’auto elettrica?

credito foto di apertura: ufficio stampa Renault