OPINIONI

Ad andare in corto circuito non sono stati i robot di Fremont

La riapertura della fabbrica Tesla a Fremont dopo il lockdown mette scompiglio nelle certezze e crea strane alleanze: Musk schierato con Trump e il fronte che detesta auto verdi e sostenibilità

Sono due strange bedfellows. Due che non ne hanno azzeccata una sull’argomento Covid-19, Donald Trump ed Elon Musk, e ora si trovano in perfetta sincronia, impegnatissimi a dimostrare che sia la California a non azzeccarne una: sui ritmi e sulle procedure di riapertura della manifattura.

Per l’attuale inquilino della Casa Bianca è un atteggiamento non nuovo e comprensibile. Da quando è stato eletto a Washington, non ha perso occasione di prendersela col governo di uno stato che non lo ama e che non gli ha concesso i suoi delegati.

Dalle norme su crisi climatica ed inquinamento a quelle sull’immigrazione, l’attuale amministrazione ha snocciolato ogni normativa possibile mirata a impedire all’esecutivo e ai legislatori di Sacramento di fare di testa propria.

Sullo sfondo della parabola professionale di Musk questo appare invece una curva a 180°. Se Tesla ha superato in passato fasi estremamente critiche è stato anche grazie a un sostegno fedele (quasi un culto più che un sostegno) tradottosi in vendite nello stato del Pacifico e in dollari dei ricchi tree-hugger eredi spirituali della Summer of Love finiti nelle tasche di Musk.

La tensione tra Tesla e istituzioni californiane sulla riapertura, malgrado qualche screzio al momento dell’avvio del lockdown ha superato ogni previsione più pessimistica. Rispetto a quello delle riaperture europee, il calendario della ripresa delle attività della manifattura auto americana sembrava destinato ad essere ugualmente sfalsato di qualche settimana, come lo era stato l’inizio della fase acuta della pandemia dall’altro lato dell’Atlantico.

Musk aveva accolto bene l’assenso del governatore californiano Gavin Newsom alla graduale riapertura delle sedi della manifattura nel suo stato. Ma lunedì Tesla ha avviato un’azione legale contro la contea di Alameda, dove sorge la fabbrica di Fremont nella quale vengono assemblati tutti e quattro i modelli, appena scoperto che Alameda come altre contee della Baia di San Francisco intendeva rinviare le riaperture: a fine mese.

Da lunedì i dipendenti in aspettativa sono stati richiamati (chi è intimorito dai rischi di contagio resterà a casa senza sussidio di disoccupazione…). Nelle linee la produzione sta riprendendo, sia pure a ritmi che non sono quelli precedenti. Anche la fabbrica di batterie in Nevada ha richiamato il personale in aspettativa: in pratica il personale è tornato ai suoi ruoli pre-lockdown.

La contea più colpita dalla pandemia nella Baia di San Francisco è finora stata quella di Santa Clara (dove Tesla a Palo Alto ha la sua direzione), con 2.341 contagi e 129 morti. Alameda è la seconda contea più colpita con 2.133 positivi e 74 decessi finora, più di quelli della stessa contea di San Francisco, che di casi ne aveva avuti fino a ieri 1.977 e 35 decessi. In California la più colpita è stata la contea di Los Angeles, la più popolosa (oltre 33.00 casi e 1.617 morti). A sud, ad Hawthorne, ha sede l’altra società di Musk: SpaceX.

Secondo Musk la fabbrica di Fremont già da venerdì della settimana scorsa poteva riaprire, dopo la fase di minima manutenzione cui è stata costretta a partire dal 23 marzo per la quarantena dei dipendenti. Poteva farlo secondo Musk con un piano sviluppato di comune accordo con le autorità della contea sulla base di quelli stesi e già operativi a Shanghai, dove lo scorso mese malgrado la fuoriuscita dalla fase acuta della crisi sanitaria la produzione è aumentata (salvo una chiusura la settimana scorsa per carenza di ricambi, pare).

Negli Stati Uniti il ricorso a piani aziendali per la messa in sicurezza ricalcati su quelli di altre fabbriche auto non è una bizzarria, anzi. Ieri mattina una nota stampa diffusa da FCA indicava che gli impianti della divisione americana, a Detroit ed altrove, sono stati messi a punto sulla falsariga di quanto appreso nelle procedure che hanno consentito agli impianti FCA in Cina ed in Italia di rimettersi gradualmente in movimento.

Nel caso di FCA, tuttavia, quello che da lunedì 18 maggio i protocolli che i dipendenti troveranno in fabbrica per combattere i rischi di una ricaduta dei contagi sono stati condivisi dal sindacato UAW e dalle istituzioni locali.

Il problema nel riavvio della produzione di Fremont è che nessun piano per la sicurezza e la protezione del personale dai rischi di contagio è stato finora approvato dal dipartimento della salute pubblica della contea di Alameda.

Stamattina, in California era ormai notte, il dipartimento ha reso pubblico di aver ricevuto i dettagli del piano Tesla solo lunedì, mentre già gli operai e impiegati tornavano in fabbrica.

Se il calendario dei fatti indicato dalle istituzioni locali fosse corretto, in pratica Musk avrebbe twittato la sua intenzione di spostare la direzione e la fabbrica in Texas o in Nevada spazientito dalla lentezza della burocrazia della contea di Alameda per non aver approvato il piano anti-Covid19 prima di riceverlo da Tesla.

Che la logica non sia del tutto consequenziale lo rivela anche il fatto che la minaccia di spostare la direzione immediatamente riguardava la sede di Palo Alto: un sito che non ha niente a che fare con la contea di Alameda, trovandosi come detto in quella di Santa Clara.

Qui sembra che, come il presidente americano e molti dei suoi più entusiasti sostenitori ultra-conservatori hanno dimostrato quando si trattava di problemi relativi alla sostenibilità e agli effetti delle attività sulla salute, il miliardario amministratore delegato di Tesla si consideri un miglior giudice del bene comune di chi è stato eletto dal pubblico e di chi lavora dentro le istituzioni.

L’appoggio ricevuto nel giro di poche ore dal segretario al Tesoro Steve Mnuchin e dalla Casa Bianca alla riapertura della fabbrica di Fremont conferma che questo sia l’attuale approccio dei vertici Tesla.

Di fronte a tanta pressione la contea di Alameda sembra vacillare e per il momento ha indicato che Tesla può continuare ad accrescere la preparazione per la ripresa delle attività.

Per lunedì 18 maggio la comunicazione ufficiale della contea indica la possibilità, in sintonia con il rispetto di procedure di sicurezza di tornare ad attività più ampie. Ma sembra solo una procedura con la quale i rappresentanti della contea cercano di salvare la faccia di fronte a una situazione già sfuggita dalle loro mani e protetta da strati molto più potenti della politica americana.

La riapertura della fabbrica di Fremont non è uno scontro tra impresa privata e burocrazia pubblica: dalla Cina alla Germania istituzioni nazionali e locali fanno a gara per spianare la strada al miliardario sudafricano

Rispetto ad una narrativa da outsider, in effetti quella degli ultimi mesi è stata per Tesla una vicenda di supporto massiccio da parte della politica. Specie dove sta aprendo o ha aperto nuovi siti produttivi. In Germania la sede nei pressi di Berlino procede con una rapidità che sorprende gli stessi tedeschi, anche di fronte a resistenze spesso paralizzanti in altri casi come quelle di gruppi locali ambientalisti, che volevano proteggere chi il bosco chi i pipistrelli. Ma il progetto procede.

In Cina il caso è stato ancora più palese proprio grazie alla crisi sanitaria, che ha provato quanto le autorità nazionali e di Shanghai tengano al successo della prima fabbrica Tesla in Asia. Hanno aiutato Tesla ad ottenere mascherine, casse di disinfettanti, scanner ad infrarossi per prendere le temperature e altre forniture e aiuti logistici che nel corso delle settimane più acute dell’epidemia era possibile ottenere solo con permessi speciali.

Che Tesla abbia beneficiato di sussidi e sostegni anche in America è cosa nota: gli sconti alla clientela decisi a suo tempo dall’amministrazione Obama sono stati un’iniezione di vitamine per mettere in marcia la storia della casa di Musk. Ma lo è ancora oggi il meccanismo dei crediti verdi, che Tesla rivende a chi cerca di ripulire il bilancio di emissioni dopo aver venduto pickup e SUV.

E anche mentre Tesla fa la guerra alla contea dove sorge la sua prima fabbrica, l’altra azienda di Musk SpaceX cerca di avere altri $656.000 di sussidi dalla California. In poche parole: nello scontro tra Musk e la contea dove sorge la sua fabbrica non è il caso di vedere una lotta tra impresa privata e potere pubblico.

Quello che si vede è un imprenditore molto abile e decisivo nel lanciare un settore come quello dell’auto elettrica pura che si sta abituando ad avere dalla sua parte in modo indiscusso le istituzioni, e che sembra non prendere neanche in considerazione l’idea che una parte delle istituzioni non vada nella direzione a lui gradita.

Come nel caso degli imprenditori a cui piace lo stile del presidente Trump, l’interesse, la propria agenda viene prima di ogni altra cosa. E non pare importare se nel caso specifico riguardo a un tema come quello della sicurezza legata alla pandemia Musk ha inanellato una serie di pericolosi strafalcioni.

Il risultato più irritante della deriva di Musk verso lo stile-Trump è che Tesla da elemento qualificante del percorso verso una industria dell’auto sostenibile stia gradualmente rischiando di trasformarsi in una liability, una passività per chi vorrebbe una transizione verde.

Gli atteggiamenti attuali di Musk sul lockdown appaiono quelli di un miliardario che sta per incassare un bonus da oltre $700 miliardi e vuole preparare il terreno al prossimo bonus, non certo quelli di un paladino di un pianeta migliore.

In altri termini la diatriba sulla riapertura della fabbrica di Fremont sta rendendo ancora più palese un corto circuito attorno a quello che rappresenta e ha rappresentato Tesla per il presente e il futuro della manifattura sostenibile.

E non sorprende che sempre più persone che avevano il potenziale per stare dalla parte di Musk, come l’ex-sindacalista e ora legislatrice dell’assemblea statale della California, Lorenza Gonzalez abbiano reagito con virulenza verbale (f**k) alle pretese del CEO Tesla che le istituzioni vadano a ruota e si adattino.

Questo corto circuito si rivela in modo sempre più palese anche nella fitta rete di fan dell’ex-fondatore di PayPal. Fred Lambert, capo redattore del sito electrek (da molti ritenuto quasi un house organ Tesla) di fronte ai fatti di queste ore si è sentito perfino in dovere di controbattere ai troll filo-Musk che alle critiche della signora Gonzalez hanno reagito con uno slogan scontato: “è pagata dai petrolieri”.

Un effetto perverso della pandemia è che sta mettendo a soqquadro anche le certezze e gli schieramenti. La lista delle donazioni dei vari settori alla vita politica di Lorenza Gonzalez dimostra in effetti che i dollari dei petrolieri l’hanno aiutata ben poco. I fratelli Koch non c’entrano proprio.

Ma il meccanismo automatico da pugile suonato con cui i troll hanno attaccato la legislatrice californiana indica come il corto circuito seguito alla crisi sanitaria abbia portato a effetti tristemente paradossali.

In queste ore i super-fan di Musk sono schierati dalla parte di chi nega la crisi climatica, con anti-vaccini e i sostenitori delle milizie amanti delle armi automatiche. Di alleati così, chi vuole la sostenibilità può fare a meno.

Credito foto di apertura: press kit Tesla