OPINIONI

Da Strasburgo a Detroit l’aria che tira per l’auto è davvero elettrica

La tensione attorno al futuro dell’auto sembra destinata a prolungarsi: in gioco c’è un settore essenziale al rilancio di una classe media messa in disparte più dalle politiche degli ultimi decenni che dalle minacce cinesi

Sono giornate dai segnali importanti queste, per chi è disposto a recepirli. In particolare se si ritiene che la transizione alla sostenibilità per quanto riguarda i trasporti e la mobilità non debba essere un mero processo di sostituzione: ovvero un’auto spinta da batterie per ogni veicolo che oggi brucia petrolio, senza guardare a quello che circonda il modo in cui questo settore dell’economia è strutturato.

Non si può trarre una conclusione diversa dopo aver visto nel giro di poche ore dapprima la UE intervenire contro il rischio di ridurre la manifattura europea di auto allo stesso stato dell’industria continentale del fotovoltaico, travolta dalla concorrenza cinese nel 21° secolo dopo essere stata un polo di innovazione in quello precedente.

Ma in particolare è stato l’avvio dello sciopero del sindacato americano UAW a rafforzare ulteriormente la convinzione che il passato di politiche economiche ed industriali seguenti alla caduta del Muro di Berlino e all’affermarsi del Washington Consensus siano diventate incompatibili con gli obiettivi di policy sostenibili: ovvero le emissioni non possono ridursi in maniera direttamente proporzionale ai redditi del lavoro e ai diritti, e addirittura in maniera inversamente proporzionale al dilatarsi delle sperequazioni economiche.

Un aspetto che non sempre è parso chiaro ad alcuni manager dell’automotive, a volte o anche spesso bravi a ottenere utili, ma che allo stesso tempo hanno tenuto compressi i redditi degli organici per fare contenti gli azionisti, stakeholder tra i quali ci sono peraltro in alcuni casi perfino istituzioni nazionali o locali che il benessere dei propri rappresentati non dovrebbero mai scordarlo.

Il possibile dumping dell’auto made in China a qualche osservatore di cose economiche ha richiamato un déja vu del processo che ha portato a prezzi sempre più bassi praticati da un numero sempre più esiguo di operatori di settore, come suggeriscono i casi di colossi dominanti come Walmart o Amazon, politiche che continuano con un effetto valanga inarrestabile fino a quando si verifica un punto di rottura clamoroso.

Ricostruire le fortune della sempre più circoscritta classe media da qualche parte deve pur cominciare: l’aria potrebbe forse cominciare a cambiare proprio a partire dalle fabbriche dell’auto, spesso laboratorio di novità fin dai suoi albori.

Se in passato la ricetta della destra economica è sempre stata solo ed esclusivamente sul versante delle tasse, quello che vediamo in America a opera del sindacato UAW diretto da Shawn Fain è una risposta che mira a riportare in alto i redditi del lavoro dipendente in una fase in cui i gruppi auto americani hanno fatto sfoggio di risultati eccellenti nei loro bilanci, con numeri da record per gruppi come Stellantis e altri.

Da giovedì scorso la United Auto Workers ha lanciato un inedito sciopero che prende di mira tutti e tre i gruppi auto di Detroit contemporaneamente, dopo che le trattative contrattuali non sono riuscite a raggiungere un nuovo accordo. E c’è un’aria di novità nel mondo dell’auto americana che non si vedeva da lunghissimo tempo.

Circa 12.700 membri scioperano quindi in tre impianti di assemblaggio selezionati nel Michigan, Ohio e Missouri. I picchetti della UAW riguardano fabbriche in buona salute, ma il leader Fain ha deciso di non toccare per ora le cash cow di General Motors, Ford e Stellantis.

I grandi generatori di profitti sono le fabbriche che producono i pickup Silverado, F-150 o Ram. Con questa scelta di non coinvolgerle, il numero di lavoratori toccati finora dallo sciopero e le risorse del sindacato per sostenerli economicamente procedono per minimizzare l’impatto sul fondo di assistenza del sindacato.

Se i vertici di Detroit dovessero continuare a puntare i piedi sulle richieste economiche di aumenti, altri fermi ad impianti potrebbero riguardare in seguito proprio la produzione dei pickup così amati dagli americani e che di fatto da almeno un decennio stanno finanziando gli investimenti in elettrificazione, digitalizzazione, guida autonoma e tutto quello che riguarda la transizione.

Proprio un aspetto che riguarda l’auto elettrica è particolarmente spinoso ma allo stesso tempo centrale per definire il futuro dell’industria. In America le fabbriche di batterie indispensabili ai veicoli elettrici (quasi tutte realizzate insieme a soci e partner asiatici) nella maggior parte dei casi sono collocate in stati della Sun Belt, quel Sud a bassissimo tasso di sindacalizzazione.

Così la differenza di paga oraria, che si concretizza nella realizzazione di tier (classi, strati operai, a cui si riferiscono i cartelli che vedete nella manifestazione della foto di apertura) si trasforma in quasi il doppio. Ma gli organici di quegli impianti decisivi per l’auto del futuro non sembrano più disposti ad accettare che la transizione avvenga sulle loro spalle.

Una conclusione logica, come già suggerito dall’approvazione dell’adesione alla formula di sindacalizzazione della prima Gigafactory di batterie, la joint venture Ultium Cells, in Ohio, che per questo è anche diventata da qualche tempo un simbolo del cercato rinnovamento delle cose.

Per gli scafati e in qualche caso spregiudicati top manager dell’industria auto globale, il passaggio all’auto elettrica contiene anche un aspetto inedito. Un aspetto che è attraente se si guarda esclusivamente ai bilanci, ma potenzialmente esplosivo se si guarda al ruolo della produzione come contributo all’economia di una comunità.

Un’auto elettrica essendo più efficiente si realizza con meno persone su una linea di montaggio, mentre le batterie che ne sono il “cuore” si realizzano con stabilimenti sempre più automatizzati che ormai rivaleggiano con quelli dei “chip” quanto a investimenti e robotizzazione.

Gli organici di quelle fabbriche di batterie così strategiche e chi lavora in impianti che sono noti per produrre utili non sembrano più disposti a partecipare facendo scena muta ad un affare che sembra essere tale solo per i grandi gruppi dell’auto e delle batterie e per i loro azionisti.

Una controparte che finora si è organizzata per minimizzare la ricaduta dei grandi investimenti sui redditi degli organici e che inoltre drena fondi pubblici con sussidi ricchi o straricchi di cui i dipendenti ricevono ben poco, se non una relativa sicurezza dell’impiego per quanto l’efficienza della Gigafactory dura.

In America in particolare i dipendenti dei gruppi di Detroit hanno ben chiaro che ai gruppi auto e a quelli delle batterie affluiranno fondi pubblici in misura crescente grazie alla legge IRA che favorisce la manifattura di auto elettriche e delle batterie, e non vogliono restare nel ruolo di raccoglitori di briciole di una catena in cui i dollari che si muovono sono molto, molto numerosi.

I dati recenti confermano che gli Stati Uniti sono ormai avviati a recuperare il distacco da Cina ed Europa come mercato fondamentale dell’auto elettrica, dalla California in giù, e quella crescita, credono Shawn Fain ed i suoi associati nella UAW dovrebbero essere una opportunità di portare aria nuova nell’economia e far beneficiare quella classe media americana che dall’avvento di Ronald Reagan in poi ha vissuto anni sempre meno brillanti e che ora sembra voler dire definitivamente: basta.

Credito foto di apertura: sito web UAW