OPINIONI

Non esiste una sola, immutabile auto elettrica: è questione di chimica

I gruppi auto occidentali si convertono alle batterie LFP a base ferrosa e qualcuno (Ford) comincia a trattare gli automobilisti da adulti, spiegando perché la chimica dei catodi riguarda loro e i loro soldi

L’annuncio di lunedì scorso con cui Ford ha confermato l’apertura di una Gigafactory in Michigan in cui si produrranno celle LFP, ha finora fatto discutere soprattutto per il know-how cinese appartenente al leader globale delle batterie CATL, a cui la casa di Dearborn si appoggerà per avviare le nuove linee di produzione nel Midwest.

Purtroppo i riflessi pavloviani che scattano ogni volta che c’è di mezzo la Cina, hanno fatto sorvolare sulla constatazione che si tratta della prima volta in cui una casa auto cerca di fare chiarezza sulle differenti caratteristiche delle celle (oltretutto inventate dal premio Nobel americano John Goodenough) che possono essere inserite in un pacco batterie.

Non un dettaglio, visto che in un oggetto ad alto costo (un big-ticket item direbbe un economista anglosassone) come l’auto il pacco batterie è proprio la componente di maggior impatto e che le singole celle di questo organo vitale sono il fulcro.

In altri termini, proprio come l’automobilista del 20° secolo aveva in quanto consumatore tutti i diritti di sapere nei dettagli quanto poteva attendersi dalla potenza, dalla coppia o dai consumi del suo acquisto, altrettanti ne dovrebbe avere l’automobilista del 21° quando si tratta di batterie e dei suoi componenti essenziali.

Del tutto fortuitamente, Ford non poteva scegliere miglior settimana per decidere di spiegare al pubblico le differenze tra le celle a base ferrosa LFP che saranno costruite a Marshall e quelle ad alto contenuto di nichel che sono state finora la scelta primaria per i gruppi auto occidentali con chimica del catodo NCA (nichel, cobalto, alluminio) o NMC (nichel, manganese, cobalto).

Infatti proprio la produzione dei pickup F-150 Lightining è stata sospesa dopo un incendio a un modello appena ultimato che ha fatto scattare un’indagine sulle celle NMC prodotte dalla coreana SK On.

Episodi come quello in corso nella fabbrica del pickup al 100% elettrico Ford, sottolineano come per I gruppi auto sia una bella polizza di assicurazione il diversificare i fornitori, come molti stanno facendo. Ma lo è anche il diversificare la chimica delle batterie dei modelli di auto elettrica proposti al pubblico.

Anche se finora si è bellamente sorvolato sul quanto sia importante rendere consapevoli i consumatori delle differenze e delle caratteristiche delle varie alternative nel mercato delle batterie.

Tra chi ha già iniziato da tempo a diversificare tra celle NCA e celle LFP ovviamente battistrada è stata Tesla, sulla scia dell’apertura del super-efficiente impianto di Shanghai.

Curiosamente Elon Musk e i suoi manager hanno lasciato sotto traccia la differente offerta di chimica nella gamma della leader dell’auto elettrica globale e tutto sommato la cosa ha le sue ragioni.

La casa texana ha sempre preteso di avere un primato in ogni campo dell’auto e ricorrere a un prodotto come le celle ferro fosfato che hanno un alone di modestia e di economicità non collima del tutto con la narrativa dominante che proviene da Austin.

Senza contare che si tratta di una fornitura esterna e non di celle prodotte nella celebre Gigafactory del Nevada o nelle altre che l’hanno seguita.

Così non c’è da sorprendersi se Tesla o altri che utilizzano le batterie LFP non si soffermino sui loro dettagli, come il voltaggio nominale lievemente inferiore a quello delle celle NMC o sulla bassa energia gravimetrica che spazia di norma tra 90-120 Wh/kg quando i valori delle celle NMC si attestano tra i 150-220 Wh/kg.

Ma nel caso della scelta della chimica i numeri, specie quelli della densità di energia, vanno presi con le pinze: anzitutto i valori cambiano tra cella e pacco completo, perché CATL, BYD e altri si sono dati da fare con l’ingegnerizzazione della loro architettura per recuperare terreno, ad esempio facendo a meno dei moduli.

E soprattutto perché la via più corretta per scegliere quali batterie siano giuste non dovrebbe partire dalla scheda tecnica di un’auto ma da quello che l’automobilista intende farci, in particolare nell’uso abituale.

Si tratta proprio del genere di argomento che ha usato in un breve ma istruttivo video Charles Poon, il Global Director of Electrified Systems dell’Ovale Blu.

(fonte video: Ford Motor Co.)

Il manager americano sottolinea cosa abbia portato Dearborn a seguire altri concorrenti inserendo nella gamma al 100% elettrica a fianco delle attuali celle NMC (in formato pouch tenuta in mano dal tecnico sulla destra nella foto di apertura) anche quelle LFP (a sinistra in mano a Poon nella foto).

Le celle NMC di fatto sono della massima utilità, viene rimarcato, all’automobilista che deve allungare la distanza massima percorribile, a chi deve sopportare carichi maggiori, e anche si aspetta che la batteria reagisca meglio a basse temperature stagionali.

La cella a base ferrosa sopporta facilmente ripetute ricariche veloci, è più economica e quindi contribuisce a ridurre il listino di un veicolo su cui è utilizzata; infine ha una vita utile più lunga.

La differente scelta di chimiche dei catodi delle celle in cui è stoccata l’energia che muove i veicoli elettrici passeggeri e merci pertanto è in grado di ampliare la risposta alle esigenze della clientela. Che può anche essere diversa e con problematiche agli estremi.

La società di logistica che usa un furgone elettrico quotidianamente per tratti urbani può essere più interessata a un veicolo con un pacco piccolo (pertanto con prezzo di listino inferiore) se nella pausa la batteria può ricaricare senza problemi a una colonnina ultra-veloce.

Un pacco batterie piccolo per un modello elettrico a prezzi accessibili può essere utile alla famiglia che percorre brevi distanze giornalmente, per viaggi a scuola o in palestra, con la soluzione della ricarica ultra-veloce a garantire comunque in grado di non rendere stressante anche un tragitto del weekend al mare o sulle piste da sci.

Quello che Ford cerca in ultima analisi di comunicare con la sua diversificazione della chimica delle celle è cominciare a far entrare la clientela vasta nell’ordine di idee che non esiste un’auto elettrica con tratti monolitici.

Invece l’offerta si diversifica ormai proprio come avveniva nel panorama tradizionale dei veicoli passeggeri e merci che bruciano combustibili fossili.

Nessuno automobilista italiano che non fosse un rappresentante di commercio negli Anni ’60 o ’70 avrebbe comprato un’auto a gasolio. Ma nel corso del tempo l’aggiornamento della tecnologia ha maggiormente sfumato le modalità e opportunità di uso principali dell’auto tra motori a benzina e diesel.

A decidere le scelte di mercato sono state le esigenze quotidiane di impiego dei veicoli, con un gioco continuo di domanda e offerta che è cambiato e molto nel tempo almeno fino a quel dieselgate che ha accelerato il declino degli investimenti nella tecnologia convenzionale.

In questi primissimi anni di diffusione dell’auto elettrica la vastità tipica dell’offerta dell’auto tradizionale è ancora lontana. Ma i segnali che provengono dai gruppi storici dell’automobile lasciano intuire che una offerta altrettanto articolata comincia a farsi largo.

Quello che avviene nelle Gigafactory delle batterie dovrebbe quindi essere degno di attenzione costante, perché la ricerca e lo sviluppo tenderanno a creare nuovi movimenti nel panorama dell’industria automobilistica, incluso in quella europea e italiana, se non troppo impegnate a sostenere tecnologie in declino.

Credito foto di apertura: ufficio stampa Ford Motor Co.