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Per meritare consenso, all’ibrido «plug-in» occorre realismo (e autonomia)

Per un segmento elettrificato in espansione, la differenza tra teoria e pratica è sostanziale: uno studio di Fraunhofer ISI e ICCT auspica test più veritieri e vicini alla realtà

I veicoli ibridi ricaricabili piacciono ai manager dei gruppi auto europei che, a partire dall’ultimo Salone Auto di Ginevra, hanno ripreso ad arricchire ogni gamma con questi modelli per migliorare i valori di emissioni delle loro flotte. E piacciono al pubblico.

Se quello tedesco è il primo mercato, la quota europea dopo i primi sei mesi del 2020 era al 3,5% contro l’1,1 del mercato cinese, ad esempio. Il genere interessa sempre più anche gli italiani, che a luglio li hanno acquistati con più entusiasmo rispetto alle elettriche pure.

Ma che l’ibrido plug-in sia l’araldo di una nuova era del trasporto, più sostenibile e allo stesso tempo più efficace perché utilizzabile anche per lunghi viaggi senza ansia di ricarica, è prematuro dirlo.

Lo sostiene una analisi dettagliata condotta dagli istituti tedeschi Fraunhofer ISI e ICCT che ha sottolineato come i consumi nel mondo reale e i valori di emissioni della CO2 siano distanti dai valori di omologazione: un ibrido plug-in da 50 grammi di CO2 al chilometro? Nel mondo reale vale tra i 100 e i 200 grammi…

Nello studio intitolato “Real-world usage of plug-in hybrid electric vehicles – Fuel consumption, electric driving, and CO2 emissions”, e presentato virtualmente oggi da Patrick Plötz e Peter Mock che dirigono i due istituti, sono stati valutati PHEV in azione nei loro maggiori mercati globali: Nord America, Cina, Germania, Norvegia e Paesi Bassi.

La valutazione dei ricercatori di Fraunhofer ISI e ICCT è che i valori reali di consumo di carburante e di emissioni di gas clima-alteranti sono tra il doppio e quattro volte quelli riscontrati coi cicli principali quali il vecchio NEDC o il più recente WLTP.

Un risultato che dovrebbe essere preso in considerazione in futuro da parte di istituzioni e regolatori per tratteggiare le politiche, i sussidi, gli incentivi. La forbice ampia tra i risultati, da due a quattro volte, si spiega con l’ampio numero di casi estratti dal vasto materiale su cui si è basata la ricerca.

Fraunhofer ISI e ICCT si sono serviti delle analisi di 104.709 ibridi plug-in in mano a privati e aziende. Altri dati sono stati derivati da portali che mettono a fuoco consumi reali di veicoli convenzionali e non: Voltstats in America, Spritmonitor in Germania e Xiao Xiong You Hao in Cina. Questi siti ed app si basano su clienti e flotte che inseriscono volontariamente i dati di consumo reale in modo anonimo.

Il risultato potrebbe essere stato influenzato dal fatto che la maggior parte dei data set (84.068) provenga dal Nord America: Stati Uniti e Canada. Quelli cinesi considerati sono stati 6.807, i norvegesi 1.514, gli uni e gli altri veicoli privati.

Le 10.800 vetture olandesi erano invece parte di flotte aziendali, mentre in Germania i circa 1.400 veicoli considerati erano privati, tranne una settantina di auto aziendali. In totale 66 modelli e 202 varianti sono confluiti nell’analisi.

Malgrado la predominanza nordamericana, secondo i ricercatori “la taglia dei campioni per i paesi individuali è ancora sufficientemente grande da discernere schemi generali e trarre conclusioni”. E i dati erano anche sufficienti a rivelare come ci siano differenze sui consumi tra paese e paese.

Gli autisti delle auto aziendali in Olanda coprivano uno spettro di consumi con variazioni tra il 100 e il 700%. In Norvegia i privati usano le ibride plug-in più uniformemente, con le deviazioni più grandi del 200%, ma il range era tra il 160 e il 230%.

Negli Stati Uniti il picco come si nota dal grafico è stato simile a quello norvegese, ma mostra variazioni considerevoli. La valutazione indica anche che è poco influente applicare cicli NEDC o WLTP, visto che la deviazione tra consumo standard e reale è all’incirca la stessa.

Un altro indicatore della differenza tra consumo standard e reale è la quota guidata in modalità elettrica rispetto alla distanza totale, nota come utility factor o per brevità UF. I ricercatori hanno trovato che la quota media di guida elettrica nella pratica corrisponde a metà di quello considerato nei cicli di collaudo NEDC e WLTP.

L’UF medio dei veicoli privati è il 69% per approvazione con standard NEDC ma soltanto il 37% circa per guida nel mondo reale. Nel caso delle vetture aziendali l’UF medio riscontrato del 63% con ciclo NEDC calava al 20% una volta passati all’utilizzo reale.

Fraunhofer ISI e ICCT hanno sottolineato notevoli differenze tra i vari mercati anche in questo segmento. Sono Norvegia e Stati Uniti rispettivamente con il 53% e il 54% ad avere le quote reali più elevate di guida abituale elettrica, in ambedue i casi per veicoli privati.

Nel caso della Germania l’UF medio per veicoli privati ibridi ricaricabili è risultato del 43%, un valore che in Cina risultava appena del 26%. Valori ancora più bassi dell’UF si segnalano per le auto aziendali in Olanda al 24% e in Germania ad appena il 18%. Le spiegazioni di percentuali così basse sono varie.

In Cina la quota di questo segmento è bassa ed è interessante soprattutto per ottenere il permesso di immatricolazione in metropoli come Shanghai, che per un’auto convenzionale sarebbe invece soggetto a lotteria. Ovvero la possibilità di guidare a basse emissioni era bassa rispetto alla comodità di una rapida immatricolazione.

Inoltre il charging behaviour è molto influenzato dalla accessibilità di postazioni di ricarica private o pubbliche comode e accessibili. La bassa frequenza di ricarica cinese è anche un riflesso di questo problema che ovviamente affligge ancora di più i proprietari di veicoli elettrici, tanto da incoraggiare gruppi auto come NIO, BAIC, Great Wall, a sondare il terreno delle possibilità del BaaS, della batteria sostituita rapidamente in appositi siti automatizzati.

Al contrario dei cinesi i guidatori di PHEV norvegesi ed americani attaccano alla colonnina o al wallbox il loro veicolo molto più spesso. Secondo lo studio di Fraunhofer ISI e ICCT un cliente tedesco carica in media una ibrida ricaricabile in tre giorni su quattro nei quali guida, media che cala a un giorno su due per le auto aziendali tedesche, recentemente favorite da misure fiscali che spingono per elettriche pure e PHEV.

Se norvegesi ed americani che caricano spesso o molto spesso i loro PHEV tendono a guidarli spesso in modalità solo elettrica, l’analisi mostra veicoli aziendali usati come le controparti convenzionali e quindi tendenzialmente con una importante quota di percorrenza a propulsione termica.

La quota di uso reale delle auto in modalità elettrica è inferiore alle aspettative in diversi casi. In Germania in particolare delude, per l’uso dei PHEV come se fossero auto convenzionali o per usi ancora maggiori. Se in America il PHEV medio fa gli stessi chilometri dell’automobilista medio, nel caso tedesco un PHEV (spesso auto aziendale) fa 6/7.000 chilometri in più della percorrenza media e con viaggi lunghi la quota di uso di elettrico cala. (credito immagine:
“Real-world usage of plug-in hybrid electric vehicles – Fuel consumption, electric driving, and CO2 emissions”, Fraunhofer ISI 2020)

Una distanza media superiore percorsa sia nel caso di PHEV aziendale che di privati si traduce in una proporzione più bassa di utility factor. La normativa fiscale tedesca favorevole che incoraggia le aziende verso l’elettrico integrale o parziale in altri termini non sembra aver tenuto conto degli effetti dell’uso intensivo nazionale dei veicoli, con potenziali effetti controproducenti nel caso pratico dei PHEV.

L’Olanda, che tra 2012 e 2016 era diventato il paradiso dei PHEV, ha sperimentato come non considerare ogni aspetto nella normativa sia una occasione di scoperchiare vasi di Pandora. Accanto agli incentivi all’acquisto, che fecero la fortuna di alcuni concessionari Mitsubishi, il governo non aveva provveduto a sussidi alle postazioni di ricarica.

Dipendenti delle aziende che avevano comprato PHEV scoprirono che le carte aziendali con cui pagavano gasolio e benzina non valevano per pagare l’energia alle colonnine, né tanto meno per pagare la corrente allacciata al garage di casa. Risultato: gli olandesi ricaricavano poco e malvolentieri i loro Outlander o Volkswagen Passat GTE, dal che scaturiva un basso UF di quel periodo.

Dallo studio tedesco emergono anche cifre interessanti dal mix di UF e chilometraggio. Il PHEV privato tedesco viaggia per 9.008 dei suoi 20.950 chilometri con un UF del 43%. Le auto aziendali tedesche considerate che in media percorrono 30.200 chilometri hanno un utility factor del 18%, corrispondente a soli 5.436 chilometri in modalità elettrica con zero emissioni locali, che difficilmente è quello a cui aspirava come risultato Berlino coi propri generosi “environmental bonus” federali.

Un altro aspetto interessante che emerge dallo studio di Fraunhofer ISI e ICCT è la correlazione che si stabilisce tra dimensioni della batteria e chilometraggio in modalità elettrica. “La maggior parte dei PHEV hanno omologazione NEDC con autonomia solo elettrica compresa tra 30 e 60 chilometri e percorrono a propulsione elettrica tra i 5.000 ed i 10.000 chilometri l’anno, che cresce insieme al range”. Ma, si sono accorti i ricercatori: “i PHEV con autonomia elettrica elevata di 80 o più chilometri raggiungono chilometraggi annuali dai 12.000 ai 20.000”.

Secondo i ricercatori Fraunhofer ISI e ICCT disporre di autonomie tra i 90-100 chilometri farebbe salire l’uso elettrico facendo bene a consumi ed emissioni reali delle ibride plug-in

Le conclusioni di Fraunhofer ISI ed ICCT portano a raccomandazioni a istituzioni e player del settore. I ricercatori si augurano che i dati su consumi ed emissioni reali si facciano largo nelle procedure e che l’accesso di un modello specifico agli incentivi poggi su dati raccolti da sistemi e dispositivi attendibili. Se le procedure test dovrebbero avvicinarsi alla realtà lo stesso dovrebbe valere per le assunzioni sulla percorrenza in puro elettrico che è parte dei cicli WLTP per riflettere l’uso reale.

A livello nazionale Mock ed ICCT raccomandano inoltre che incentivi e tassazione siano maggiormente ancorati a reali usi elettrici predominanti da parte di privati e aziende che ne beneficiano. Allo stesso tempo le politiche per un facile e conveniente accesso alle colonnine dovrebbero farsi più capillari, per eliminare quello che si è già rivelato in passato un sostanziale collo di bottiglia.

Infine molto potrebbero fare le case auto, il cui ruolo potrebbe essere sostanziale nel portare la media del range dei PHEV verso quella soglia tra i 90 e i 100 chilometri che potrebbe rivelarsi preziosa.

Secondo i calcoli, 10 km di aumento dell’autonomia elettrica porterebbero a un calo tra l’8% e il 14% dei consumi reali, mentre con una crescita del range dello stesso valore l’UF crescerebbe tra i 3 e i 5 punti percentuali.

Ridurre la potenza e aumentare l’autonomia è la ricetta Fraunhofer ISI per migliorare i consumi reali di carburante e le emissioni di CO2 dei veicoli ibridi plug-in (credito immagine:
“Real-world usage of plug-in hybrid electric vehicles – Fuel consumption, electric driving, and CO2 emissions”, Fraunhofer ISI 2020)

Ma se la prima parte della raccomandazione dei ricercatori alle case auto è sfondare una porta aperta, forse sarà accolta in modo opposto l’altra, visto che spesso le più grandi autonomie di modelli ibridi ricaricabili vanno oggi a braccetto con imponenti SUV o berline di grande cilindrata.

Perché oltre all’attenzione fondamentale all’autonomia, Fraunhofer ISI e ICCT propongono anche di limitare la potenza dei motori a combustione dei PHEV per incoraggiarne la guida in modalità al 100% elettrica, con quello convenzionale a fare quasi solo da “scialuppa di salvataggio”.

In conclusione, le ibride plug-in possono servire a trasformare in chilometri elettrici molti viaggi: Fraunhofer ISI ed ICCT non spingono affatto per vedere ipotetici PHEV con enormi batterie che facciano concorrenza ai BEV.

Piuttosto auspicano autonomie al 100% elettriche sufficientemente lunghe, dell’ordine degli 80-100 km, che siano spinti solo da elettroni. Le attuali politiche e norme riguardanti il settore non sostengono a sufficienza questo risultato, e secondo gli autori dovrebbero essere riviste per rimediare.

Credito foto di apertura: ufficio stampa Daimler AG