OPINIONI

Gli investimenti sì, l’«import» di automobili no?

Il confronto attuale tra Occidente e Cina nell’automotive, vede invertirsi le parti quali si erano delineate durante la fase di ingresso delle grandi case in quello che già da tempo è diventato il primo mercato globale per i veicoli passeggeri.

Le tensioni ormai non più recenti tra Occidente e Cina continuano a scontrarsi con la realtà economica e la “fame” di investimenti e di industria diffusasi in America ed Europa. Leggi protezionistiche come l’IRA americana, oppure le inchieste di Bruxelles sugli aiuti di stato all’industria che esporta nel Vecchio Continente, hanno certamente rallentato l’espansione delle aziende cinesi nell’auto e creato ostacoli in settori collegati, come le batterie per i BEV.

Tuttavia, Stati Uniti ed Europa che cercano di difendere un settore strategico faticano a tenere fuori anche gli investimenti. Il che spiega perché nonostante tutto molto pochi in Germania contestino la presenza del colosso delle batterie CATL, oppure nell’Ungheria sovranista l’arrivo della prima fabbrica di auto elettriche europea di BYD sia stato festeggiato.

La tensione tra obiettivi e percorsi in un settore in rapida trasformazione come l’automobile e la sua filiera, fa sì che ormai si assista anche a sorprese: tale si può ancora considerare il corteggiamento dell’esecutivo italiano verso gruppi automobilistici cinesi per attirarne una parte di manifattura nello Stivale, malgrado nel passato più o meno recente la narrativa originaria della maggioranza di governo sia certo stata poco incline a comprensione e stima per gli interlocutori.

Malgrado si lamenti da anni che prima FCA e poi Stellantis abbiano ridotto il ruolo italiano nella manifattura auto, una imprenditoria nazionale che era rimasta in disparte man mano la parabola dell’Italia delle quattro ruote calava adesso sembra vedere un affare nella collaborazione coi cinesi. Il caso più eclatante e non da oggi è il gruppo DR di Massimo Di Risio e i suoi marchi che spuntano sui cofani di veicoli tutti prodotti da costruttori dell’Impero di Mezzo.

Il caso più recente riguarda la presenza nella neonata DF Italia, divisione locale del gruppo Dongfeng (Vento dell’Est), di Paolo Berlusconi. Il fratello dell’ex-premier Silvio insieme alla figlia Alessia attraverso la società PBF S.r.l., è tra i soci fondatori col 10% del capitale, mentre il restante appartiene agli imprenditori Bruno Giovanni Mafrici e Giorgio Ratto. L’azienda importerà veicoli dalla Cina, inclusi quelli al 100% elettrici del nuovo marchio Voyah (nella foto di apertura il SUV Free).

Dongfeng è stato partner storico di case occidentali, in particolare per stretti rapporti col gruppo PSA, oggi Stellantis. Insomma, se si guarda agli investimenti e ai capitali, si tratta di un altro caso di storici legami tra Cina e Occidente, come è avvenuto con altri gruppi. I manager di Dongfeng hanno lasciato intendere che a una presenza più massiccia in Italia il gruppo di Wuhan sta pensando, mentre altri candidati ad entrare in una fabbrica italiana come Chery paiono aver ormai preferito la non lontana Spagna.

A sentire l’agenzia Bloomberg, proprio Dongfeng potrebbe essere interessata ad aprire una linea in grado di costruire 100.000 e più veicoli l’anno entro i nostri confini, e usare questo terreno come base di partenza per distribuirli nei paesi vicini restando all’interno dell’Europa priva di barriere. In poche parole, quello a cui stiamo assistendo, sembra proprio un rovesciamento speculare della situazione come si è dipanata quando i gruppi occidentali hanno iniziato a costruire auto in Cina, dopo le aperture di Deng Xiaoping.

Pechino voleva investimenti, voleva impianti, voleva mano d’opera locale, ma non vedeva di buon occhio l’import di veicoli entro i propri confini. Tutti i grandi gruppi, da Volkswagen a General Motors, si sono adeguati e oltre un paio di decenni la cosa ha consentito ad entrambi di esserne soddisfatti, prima che i gruppi cinesi iniziassero a mettersi per conto proprio erodendo mese dopo mese quote di mercato ai marchi storici occidentali rimasti troppo alla finestra con la gamma elettrica tanto gradita a quelle latitudini.

In Europa sembra stia avvenendo la stessa cosa in un’epoca e contesto differente: stavolta a sentire la pressione locale sono soprattutto le case generaliste, specie dopo che hanno ormai perso la “ricetta” dei veicoli a prezzi accessibili. Mentre dalla Francia alla Germania i governi sono sempre meno intenzionati a sostenere un mercato in cui i fondi pubblici finiscono a veicoli prodotti da staff a Wuhan o a Shenzhen.

Ma le cose sono diverse se si guarda all’insediamento di Gigafactory di batterie come nel caso CATL, oppure per fabbriche auto di dimensioni più modeste: tale sarà il caso Chery a Barcellona oppure quello eventuale di una fabbrica Dongfeng in Italia. Non è del resto facile voltarsi dall’altra parte di fronte all’opportunità di accogliere investimenti in una fase in cui il periodo del denaro a costo zero e dei finanziamenti facili è diventato un remoto ricordo.

Inoltre è anche il caso di tenere presente che tra obiettivi e concrete opportunità di raggiungerli c’è di mezzo una realtà che è strutturata secondo modalità complicate. In alcuni casi le scorciatoie sono o necessarie o inevitabili.

Se ne stanno ad esempio accorgendo negli Stati Uniti per la filiera delle materie prime delle batterie: in molti casi creare supply chain nazionali richiederà un lustro o un decennio, e nel frattempo gruppi industriali e Washington stanno cercando compromessi accettabili.

In altri casi in mezzo a nuove norme protezionistiche attuali altre, vecchie di decenni, offrono scorciatoie che possono favorire alcuni a spese di altri concorrenti. Sembra questo il caso Volvo, che tra poco introdurrà in America la sua EX30, un modello che sta suscitando interesse perfino in un mercato anemico sull’elettrico come l’Italia.

Questo veicolo svedese che è però made in China arriverà quest’estate presso i concessionari statunitensi con un prezzo base di $35.000 che sta già creando un grande interesse nel pubblico, in pratica andando ad attaccare quel mercato di clientela dal budget contenuto ma che cerca anche qualità. Con quell’origine, il veicolo che fa capo al grande gruppo cinese Geely non dovrebbe sfuggire alle tariffe previste.

Ma Volvo Cars avrà la possibilità di evitare le tariffe statunitensi (il 27,5%) sulle auto cinesi perché ha anche attività di produzione negli stati del Sud. Lo stabilimento Volvo nella Carolina del Sud infatti esporta un altro modello, anche in Europa, l’EX90. Quelle quote di export potranno essere utilizzate per compensare le importazioni dell’EX30 dalla Cina.

Il programma di restituzione dei dazi statunitense risale al 1789 e in origine era stato previsto per rimborsare alle aziende le tariffe pagate sulle materie prime importate, purché le utilizzassero per costruire prodotti finiti per l’esportazione. Attualmente consente a una gamma molto più ampia di esportazioni di compensare le tasse su importazioni di prodotti simili.

Lo stesso EX30 diventerà ancora più economico nel caso di veicoli elettrici noleggiati, che si qualificano come veicoli commerciali e hanno diritto a un sussidio simile di $7.500 dollari senza restrizioni sul contenuto di origine cinese. Questo potrebbe portare il prezzo effettivo di un EX30 noleggiato a $27.500: un’offerta che sarebbe davvero competitiva coi SUV compatti a cinque posti alimentati dai normali carburanti.

credito foto di apertura: ufficio stampa Salone Auto Pechino via NewspressUK