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Il fondo sovrano saudita che non ascolta ARAMCO

Il colosso petrolifero dello stato arabo tornerebbe volentieri agli Anni ’70, ma il fondo sovrano creato per rendere lo stato del Golfo a prova di futuro continua imperterrito a investire nella transizione energetica che ARAMCO dichiara fantasy

L’inizio della settimana pasquale custodiva due notizie che contraddicono una recente e netta presa di posizione di Amin H. Nasser, il presidente ed amministratore delegato di Saudi Aramco.

Il 18 marzo scorso parlando durante la conferenza globale sull’energia CERAWeek a Houston, in Texas, il numero uno del colosso saudita del petrolio aveva detto tra l’altro che la transizione verso l’energia pulita “sta visibilmente fallendo sulla maggior parte dei fronti”.

A capo della strapotente e straricca compagnia statale saudita dal 2015, Nasser si lamentava anche del fatto che il settore sia dipinto come “l’arci-nemico della transizione”. Che personaggi e gruppi miliardari e dal potere smisurato non abbiano la pelle spessa nonché una conclamata inclinazione a lagnarsi dell’irriconoscenza del mondo e dell’umanità verso le loro qualità e pregi non è una novità.

Ma se il discorso al CERAWeek non sorprende riguardo all’autocompiacimento con cui ARAMCO e l’industria petrolifera vede se stessa mentre intorno ad essa il mondo si imbarca in un passaggio lungo e complicato che giorno per giorno ne riduce la rilevanza, contemporaneamente nella stessa Arabia Saudita si continua a fare nei fatti quello che nel gergo dei gestori di denaro si definisce “non mettere tutte le uova nello stesso cesto”.

Ovvero non scommettere solo e certamente non tutto il capitale sull’unica carta dei combustibili fossili. Infatti questa settimana il fondo sovrano PIF (la cui liquidità peraltro proviene in misura schiacciante proprio dal petrolio) ha preso due decisioni che vanno nella direzione di aiutare progetti che la transizione la stanno cercando e inseguendo. Dal punto di vista dello spessore economico, la notizia più importante è certamente quella che riguarda Lucid Motors.

Per la precisione il salvataggio di Lucid, visto che senza la decisione del fondo sovrano saudita di intervenire con una iniezione di denaro fresco ($1 miliardo) attraverso la controllata Ayar Third Investment, i rischi di andare verso l’insolvenza per la casa americana erano concreti.

La speranza sembra essere di ripetere con Lucid quello che circa quattro anni fa era riuscito al governo della provincia di Anhui con la startup cinese NIO: rilanciarla e sostenerne la crescita. I manager sauditi sono evidentemente convinti di poter riuscire a vedere la luce in fondo al tunnel per il loro travagliato investimento iniziato nel 2018 in un tempo ragionevole.

Con NIO tra l’altro Lucid condivide anche alcuni aspetti, tra cui le difficoltà nello scalare la produzione, ma anche una buona reputazione nella clientela che ha già ricevuto i veicoli e nel complesso una tecnologia tutt’altro che scadente, in certi casi da primato nel proprio settore.

E in questo caso è probabilmente stato fondamentale per confermare la fiducia a Lucid il fatto che per i modelli Air e Gravity sia prevista anche la produzione in Medio Oriente, al di là di quello che potrà produrre per il mercato americano la fabbrica principale in Arizona.

Lucid resterà a galla grazie al collocamento privato di azioni privilegiate convertibili. Malgrado il produttore californiano abbia dichiarato di avere liquidità sufficiente a continuare l’attività almeno fino al 2025, non c’è dubbio che con ricavi che nel 2024 cresceranno poco (dovrebbe costruire circa 9.000 vetture, totale di poco superiore alle 8.500 consegnate nel 2023) gli investimenti necessari al completamento e al lancio del nuovo SUV Gravity avrebbero influito sui conti aziendali.

Meno eclatante ma comunque interessante un altro progetto che riguarda un’impresa saudita, Red Sea Global e i coreani di Hyundai. L’impresa araba fa parte dei progetti lanciati con Saudi Vision 2023 per preparare l’economia nazionale a una fase meno monopolizzata dalle materie prime (e da quella di cui si occupa ARAMCO in particolare).

Il 25 marzo scorso i due nuovi partner hanno stipulato un accordo di programma in base al quale lavoreranno per portare veicoli sostenibili, ovvero BEV e a idrogeno, nel resort che sta nascendo sulla isola di Ummahat e in quello di ultra-lusso Amaala sulla costa nordoccidentale dell’Arabia Saudita, entrambi progetti turistico-immobiliari dovuti a RSG.

Da notare che il socio arabo è interessato anche nell’introdurre la mobilità elettrica aerea su cui il gruppo coreano sta lavorando con vari partner da oltre un lustro ormai per proporre sul mercato veicoli Evtol per il trasporto rapido in alternativa a quello su ruota.

Il capitale di RSG è anche in questo caso controllato dal Public Investment Fund (PIF). L’azienda sviluppa cinque mega-progetti (tra cui un’intera nuova città digitale) nell’ottica del piano Vision 2030 varato nel 2016.

Che i sauditi abbiano scelto i coreani per dotare i due nuovi ambiziosi progetti turistici di una mobilità sostenibile che non si preoccupa affatto di compiacere il settore petrolifero nazionale è poco sorprendente visto che lo scorso autunno il presidente Hyundai Chung Euisun aveva firmato un altro accordo da $500 milioni sempre col fondo sovrano per dare vita a un impianto auto nel territorio attorno alla King Abdullah Economic City (KAEC).

credito immagine di apertura: foto di Zbynek Burival su Unsplash