OPINIONI

Se l’Italia punta i piedi sull’elettrico, «business» cruciali soffrono

Le conferme concrete della difficoltà di fare impresa innovando non mancano, dall’idrogeno all’infrastruttura di ricarica: e dove il mercato (come il nostro) stenta, si spalancheranno le porte alla concorrenza estera

Cosa hanno in comune un operatore di stazioni di rifornimento di idrogeno danese e Be Charge, la divisione italiana di ENI attiva nell’infrastuttura di ricarica? In questi giorni le notizie che riguardano l’una e l’altra sembrano puntare alla presa di consapevolezza che entrambe si muovono in un contesto dove operare come una normale azienda è molto difficile, per ragioni che hanno cause diverse ma effetti simili.

Partendo dalla meno nota delle due notizie, rileviamo che in Danimarca Everfuel ha chiuso la sua rete di stazioni di rifornimento di idrogeno prendendo atto della non-sostenibilità di un business con appena 167 auto immatricolate nel paese scandinavo. Ovvero: elettrico o idrogeno i business soffrono, se tali non sono.

Il CEO dell’azienda danese Jacob Krogsgard peraltro non sembra voler uscire dal settore dell’idrogeno, perché continuerà con la sua società ad essere attivo negli elettrolizzatori per produrre la molecola da energia rinnovabile, di cui nella regione c’è grande disponibilità.

Insomma Everfuel non scarica il potenziale dell’idrogeno in sé, ma mette a fuoco ciò che non è economicamente sostenibile: il traffico passeggeri con veicoli fuel cell (che fa fatica anche in Corea del Sud e Giappone dove è appoggiato in modo palese) rispetto ad attività queste sì percorribili come business: la produzione di idrogeno per usi industriali o magari per il traffico di veicoli non passeggeri, o in futuro nautica o aviazione.

Questo è particolarmente evidente in un contesto come quello dei veicoli fuel cell ma, con le dovute proporzioni, si comincia a intuire una difficile sostenibilità del business della ricarica pubblica anche in paesi come l’Italia dove l’approccio conservatore all’auto è dominante e quindi i bilanci soffrono se di veicoli elettrici se ne vendono pochissimi: nel mese di settembre, ad esempio, si sono immatricolate in Francia dieci volte (oltre 2.000 esemplari) le 500e vendute in Italia, dove Fiat le costruisce.

Secondo l’ultimo Smart Mobility Report curato dal Politecnico di Milano, il tasso recente di immatricolazioni di auto con la presa in Italia non risulta sufficiente a raggiungere i target PNIEC al 2030. Si prefigura già, secondo gli esperti di Energy&Strategy Group che hanno redatto il resoconto annuale, un rapporto punti di ricarica/autovetture elettriche sbilanciato a favore di quest’ultime con un rateo circa 1:40, quando in Germania ci si pone come obiettivo un punto di ricarica ogni 15 veicoli passeggeri elettrici.

In altre parole potrebbe crearsi un circolo vizioso di poche colonnine con tasso di occupazione basso per le poche auto che richiedono energia elettrica, inducendo le aziende a centellinare gli investimenti, con scarso entusiasmo conseguente del pubblico che constaterebbe una infrastruttura limitata, venendo quindi scoraggiato dall’abbandonare termico o ibrido.

In questo mercato così diffidente verso il nuovo e quindi difficile per chi deve investire, Be Charge ha comunicato che dal primo di novembre aumenterà le tariffe delle ricariche fino a 22 kW (quelle più diffuse nelle grandi città) da €0,60 a €0,65 al kWh. Oltre al rincaro di 5 cent/kWh della tariffa nelle colonnine in corrente alternata, la società del gruppo ENI-Plenitude annuncia altri cambiamenti.

Dalla stessa data infatti non sarà più possibile acquistare o rinnovare gli apprezzati abbonamenti Be Charge: sarà infatti introdotto un nuovo (più complicato) piano tariffario con scelta tra 4 opzioni, di cui tre ad un prezzo scontato rispetto alle ricariche a consumo.

Be Start prevede un fee di €9,90 ogni 30 giorni, con sconto del 20% sulla tariffa a consumo. Be Medium, un fee di €13,90 euro e sconto del 30%. Infine per Be Premium, importo fisso di €19,90 e sconto del 40%, rivolto a chi fa più strada.

Ci sarà anche un importo più alto a carico di chi lascia l’auto nello spazio della ricarica dopo avere terminato l’operazione da oltre un’ora. Per ogni minuto successivo da novembre verranno addebitati 0,10 euro/minuto nella colonnine fino a 22 kWh, €0,20 nelle fast fino a 99 kWh e €0,30 nelle postazioni da 100 kW in su.

Come è facile rilevare dai commenti sugli attivissimi forum di utenti dell’auto a zero emissioni locali, l’opinione comune è che dopo l’avvio di una politica analoga dall’altro colosso di settore Enel X Way ora le aziende si orientino a cercare di ottenere ricavi dalle ricariche a consumo penalizzando gli abbonamenti, che invece dovrebbero essere incentivati per diffondere questo tipo di propulsione dei veicoli passeggeri.

La ricarica a consumo peraltro potrebbe essere considerata adatta a chi compra ibride plug-in, modelli che in Italia continuano ad essere la maggioranza degli acquisti rispetto alle vetture BEV, in controtendenza rispetto al resto d’Europa.

Ma soprattutto in un contesto come quello italiano viene spontaneo domandarsi se per Enel ed ENI (o altri) ci siano ancora le basi per poter trarre benefici dall’attività, con una crescita così anemica del settore. Infatti gli investimenti per collocare colonnine AC e DC sono sostanziali, mentre il tasso di occupazione della singola postazione in Italia non può che essere basso, molto basso, rispetto a quello che sarebbe necessario per rientrare dell’investimento. E quote di vendita del mercato del nuovo così pallide come le attuali per chi fa i conti significano allontanare il momento in cui il tasso di occupazione della colonnina si avvicinerà all’utile.

Insomma, senza voler immaginare confronti improponibili con nuove enormi postazioni HPC come quella di Shell e BYD da 258 colonnine spuntata nel sud della Cina, torna di attualità il timore che la crescita della rete infrastrutturale italiana possa dover contare solo sul sostegno di “stampelle” come il PNRR, senza i quali la voglia di investire da parte degli operatori delle infrastrutture della rete svanirebbe in modo fulmineo.

O in alternativa li spingerebbe a passare la mano a investitori ed operatori stranieri, che in Nord Europa invece cominciano a recuperare i capitali inizialmente allocati per creare reti capillari e redditizie oltre che indispensabili per gli utenti.

Così gli effetti sui gusti dei consumatori italiani del successo della dominante narrativa “retequattrista” dei nemici del nuovo a prescindere, in questo caso in campo tecnologico ed economico, potrebbe portare l’infrastruttura di ricarica nazionale alla svendita da parte degli operatori, un risultato paradossale che farebbe venire la pelle d’oca per primi proprio agli economisti “sovranisti”.

Proprio in un mercato difficile come quello italiano, diventano quindi palesi i punti nodali di quello che anche in un mercato favorevole sono non evitabili. Per chi li volesse sviscerare in modo più approfondito, suggeriamo un articolo apparso su Forbes un paio di anni fa a firma dell’esperto americano di innovazione Brad Templeton.

Templeton si domandava esplicitamente: “La ricarica delle auto elettriche può essere un business?”. E partiva dai dati noti e consolidati sul profilo di chi usa l’auto elettrica in America, molto simile peraltro a quello italiano. Per cominciare gli acquirenti di veicoli elettrici tendono ad essere proprietari di case e quindi installano un wallbox a casa.

In Italia abbiamo più proprietari di abitazioni rispetto alla maggior parte dei paesi occidentali, e questo per una utility o un operatore di colonnine è già una cattiva notizia da cui partire, e non migliora necessariamente quando la situazione e la quota di elettriche pure in circolazione in Italia dovesse progredire: col crescere di proprietari di elettriche, ci si può attendere cresca anche il numero di persone che ricaricherà da piccoli impianti di rinnovabili.

Altri guidatori di veicoli elettrici possono ricaricare al lavoro, e questo riguarda anche persone che abbiano la casa di proprietà ma magari risieda in un condominio dove la possibilità di utilizzare piccoli impianti FER sia complicata. Per questo diventerà forse popolare (come già avviene in qualche caso) che datori di lavoro offrano la ricarica gratuita ai dipendenti come benefit e per incoraggiare la guida verde.

Per la moderna generazione di veicoli elettrici con adeguata autonomia, numerosi automobilisti possono e potranno caricare a casa o al lavoro senza mai fare altro per la guida in città o i percorsi pendolari. Insomma le stazioni di ricarica le vedono nei parcheggi pubblici, degli alberghi o dei centri commerciali ma senza particolari motivi per usarle. Certo, tutto cambia quando si è lontani da casa o dal luogo di lavoro.

Durante i viaggi si deve ricaricare per forza presso le stazioni di ricarica pubbliche, presso quelle veloci, che sono di solito le più costose ma si fanno perdonare per il tempo richiesto. E il prezzo elevato non ha solo effetti negativi: ad esempio chi guida elettrico nel caso faccia un viaggio ben pianificabile come è il caso di una vacanza durante un ponte primaverile, calcolerà se o no può arrivare a una città d’arte e tornare senza fermarsi a una colonnina HPC.

Se si accorge che deve fare magari tre, quattro soste ed il prezzo sale troppo, può essere indotto a salire su un Frecciarossa per raggiungerla, il che non sarebbe un male. Cosa significhi il modo di ragionare del cliente dell’elettrico per l’attività di chi ha una rete infrastrutturale di ricarica e cosa comporti per i business ad esso collegati e che di questa oculatezza probabilmente soffrono e soffriranno è facile immaginare.

Templeton scriveva su Forbes un paio di anni fa: “immagina come sarebbe la benzina, se tutti avessero una stazione di servizio a casa dove si riforniscono lentamente ogni notte per $1/gallone. Quante volte si fermerebbero in una stazione ordinaria che addebita $3/gallone? Solo in una situazione disperata, o quando si è lontani da casa. Gestire una stazione di servizio non sarebbe un gran business!”.

Così, come sottolinea l’esperto su Forbes, l’infrastruttura di ricarica diventa piuttosto una leva per vendere automobili come nel caso Tesla, o della rivale Volkswagen che a fatica la sta imitando in America. In ogni caso i manager delle case auto, già impegnate nella transizione all’elettrico, difficilmente possono aspettarsi da questo business contributi a margini che soffrono: per i motivi che abbiamo detto e per la difficoltà di fare leva su altri fattori.

Ad esempio, i prezzi dell’elettricità variano anche molto tra giorno e notte, con punte particolari quando il sole martella o il vento si scatena. Ma le stazioni di ricarica più costose, quelle HPC per le autostrade, ben difficilmente offriranno ai responsabili dei conti le condizioni migliori: l’energia più economica è di notte, e l’operatore guadagnerebbe di più su queste ricariche dagli automobilisti… nottambuli. Auguri sul riuscire a far funzionare questo concetto, salvo forse qualche raro caso durante gli esodi estivi da bollino nero.

Se già di norma il sistema è complicato in un mercato dove la crescita della clientela è sostanziale, come in Nord Europa o America, viene da chiedersi cosa succederà di qui alla fine del decennio all’infrastruttura italiana in una fase che sarà precedente a un futuro meno immediato nel quale le batterie si ricaricheranno in modo simile a quello di un rifornimento di carburante.

Da qui al 2030 le alternative appaiono soltanto tre: che gli operatori tengano duro per occupare le quote di mercato perdendo soldi; che come già ipotizzato vendano agli stranieri che hanno network europei o globali; che subentrino altre attività come ad esempio catene di ristoranti o autogrill, più interessati alle attività collaterali di pasti e mini-market che all’energia elettrica da vendere.

Credito foto di apertura: sito web Everfuel