OPINIONI

Anche il Giappone pretende trasparenza nei dati sulle emissioni delle batterie

Dopo l’Unione Europea anche a Tokyo l’esecutivo chiederà all’industria di calcolare e segnalare la quantità di emissioni collegate alla produzione dei pacchi batterie: l’auto elettrica toglie sempre più spazio al greenwashing

Oggi l’edizione inglese della testata finanziaria Nikkei ha reso noto che il governo giapponese prevede di richiedere ai produttori di veicoli elettrici in vendita nel paese di calcolare e segnalare la quantità di emissioni collegate alla produzione dei pacchi batterie (nel caso dei veicoli elettrici si tratta del maggior fattore di impatto sul clima, fino al 60% secondo i dati in possesso della società di consulenza McKinsey).

L’esecutivo di Tokyo intende utilizzare i dati ricevuti dall’industria nazionale e dagli importatori per determinare l’ammissibilità ai sussidi sui veicoli elettrici, mirati a migliorare le quote di un settore in cui finora il Giappone ha dimostrato un interesse tiepido finora, anche per i noti e controversi esempi di scetticismo manifestati sull’auto elettrica dai management di Toyota, Honda e Mazda nel recente passato.

Il Ministero dell’Economia, del Commercio e dell’Industria prevede di introdurre il requisito, che si applicherà sia ai veicoli elettrici che ai modelli ibridi ricaricabili, nell’anno fiscale 2024 che in Giappone non scade al 31 dicembre ma a marzo. Anche il Giappone quindi rispecchia misure simili adottate dall’Unione europea, che inizierà a sua volta a rendere obbligatoria la divulgazione delle informazioni sulle emissioni dal 2024.

In altre parole l’adeguamento del Giappone a norme sempre più universali sarà un beneficio per l’industria e non un ostacolo. “Se l’introduzione delle regole sull’impronta di carbonio viene ritardata, le case automobilistiche giapponesi potrebbero rimanere più indietro nel mercato”, dichiara nell’articolo l’esperto di settore Chiharu Tokoro della Waseda University.

I sussidi anche per i consumatori del paese asiatico svolgono un ruolo importante nella diffusione dell’uso dei veicoli elettrici, che costano in media circa 4 milioni di yen (circa $ 30.000) in Giappone. Attualmente, i sussidi nazionali alle auto elettriche possono raggiungere circa 650.000 yen per veicolo.

Per i modelli che soddisfano determinate condizioni, come quelli le cui batterie possono essere utilizzate per alimentare una casa con le tecnologie bi-direzionali V2G o V2H molto utili in casi di emergenze, tale importo può crescere fino a 850.000 yen.

Inizialmente, i produttori di veicoli elettrici segnaleranno le emissioni delle batterie solo al ministero, ma le informazioni saranno eventualmente rese disponibili anche ai consumatori. Sarà istituito un organismo di certificazione di terze parti per verificare i dati. In un primo momento, spiega Nikkei, i veicoli elettrici potranno beneficiare di sussidi semplicemente divulgando le informazioni.

Ma in futuro il governo di Tokyo probabilmente stabilirà un limite massimo per le emissioni, vietando a tutti i veicoli che superano tale limite di ricevere i sussidi. La mossa riflette il crescente controllo dell’intera impronta di carbonio dei veicoli elettrici da parte dei governi di tutto il mondo, valutando le emissioni in quello che si chiama ciclo di vita completo del veicolo o della sua batteria (LCA, acronimo di Life Cycle Assessment) le emissioni create in ogni fase della produzione, dall’estrazione delle materie prime allo smaltimento e al riciclo.

I nuovi piani del Giappone arrivano mentre gli Stati Uniti considerano l’estensione delle linee guida sull’impronta di carbonio per gli appalti pubblici di infrastrutture e apparecchiature elettroniche al settore auto in futuro.

L’industria delle celle per veicoli elettrici affrontano quindi una filiera complessa da inquadrare e misurare, con molte difficoltà nel calcolo dei dati da una catena di approvvigionamento globale che include l’utilizzo di materie prime critiche (e a volte chiacchierate) come litio e cobalto.

Ma la difficoltà operativa rappresenta anche un valore reale e concreto, che indica come la transizione per quanto riguarda i più genuini interpreti sia un modus vivendi e non una caccia alle opportunità di greenwashing, che per decenni è stata invece la prassi di industrie come quella dell’oil and gas, talvolta con risultati rivelatisi un boomerang.

Nel settore delle celle per i veicoli elettrici è forse difficile trovare un esempio più esplicito di impegno in questo senso, ovvero per raggiungere una autentica e inattaccabile sostenibilità, della svedese Northvolt. Emma Nehrenheim, la Chief Environmental Officer che ha guidato la raccolta dei dati e la stesura del suo primo Sustainability Report presentato nel giugno 2022, non si stanca di sottolineare che l’azienda ha fissato l’obiettivo di scendere a 10 chilogrammi di CO2/kWh nelle emissioni per produrre le sue batterie.

Ad un simposio di settore svoltosi a ottobre dello stesso anno l’azienda diretta da Peter Carlsson e Paolo Cerruti indicava che le emissioni per la manifattura delle sue celle fossero arrivate a 75 chilogrammi di CO2/kWh; dati attendibili indicano una media di circa 150 chilogrammi di CO2/kWh per le attuali linee di produzione.

A medio e lungo periodo in particolare in Europa si potrebbe rivelare un fattore di competitività, questa crescente attenzione dei regolatori sulle emissioni complete delle auto elettriche. Emissioni che ormai da qualche anno sono credibilmente confermate come migliori delle auto convenzionali anche quando considerate in contesti sfavorevoli, come nei paesi dell’Est Europa in cui la fonte principale per produrre energia elettrica è ancora il carbone.

Ma la convinzione di alcuni osservatori nostalgici dell’auto convenzionale che il settore delle batterie avrebbe ripetuto gli errori della prima selvaggia globalizzazione, trasformando paesi come Ungheria o Polonia in “tante piccole Cine”, si è rivelata errata. È innegabile che i produttori asiatici di batterie abbiano in certi casi collocato la loro produzione europea puntando su terreni poco costosi e stipendi più bassi rispetto a Germania o Francia.

Ma ormai è un fatto che per i fornitori è impossibile firmare contratti con case auto europee che non prevedano nei capitolati impegni sulla fornitura di energia necessaria a costruire le batterie, per contribuire a contenere le emissioni derivanti dalla loro produzione nella fase più critica.

Ovvero, dal gruppo BMW a quello Volkswagen, tutti chiedono che le celle acquistate siano prodotte con energia proveniente da contratti green: perciò anche gli esecutivi più conservatori dell’Est Europa e con meno simpatia per le istanze verdi devono adeguarsi e creare una infrastruttura con quote di rinnovabili in grado di rispondere alla domanda degli importantissimi clienti dell’automotive.

Sulla scia di quanto avviene ormai globalmente come dimostra il caso giapponese, peraltro in Europa malgrado il vantaggio competitivo della mano d’opera dell’Est Europa, l’implementazione di politiche industriali basate sulla manifattura di prodotti per veicoli a zero emissioni dovrebbe sostenere il margine di competitività di Scandinavia e Penisola Iberica: questo perché in un caso c’è un contributo sostanziale e storico dell’idroelettrico e nel secondo caso c’è stata una lungimirante pianificazione su eolico e solare.

Nonostante il vantaggio di queste zone del Vecchio Continente, con l’ampliarsi di un percorso economico che collega in modo rigoroso sostenibilità e industria come avviene nella applicazione di criteri di LCA per monitorare i dati di emissioni delle batterie, anche la nostra Italia avrebbe ancora margine per dire la propria in una catena del valore con queste caratteristiche.

Un esempio istruttivo potrebbe rivelarsi Termoli: la futura Gigafactory del consorzio delle batterie ACC creato da Stellantis, TotalEnergies e Mercedes-Benz, infatti potrebbe avere benefici dalla incoraggiante presenza di rinnovabili nella vicina Puglia. Un esecutivo nazionale e amministrazioni locali lungimiranti dovrebbero avere coraggio e voglia di farsi qualche domanda e preparare delle proposte.

Soprattutto considerando che abbiamo aree come la Lombardia e il Piemonte che a fine ‘800 e a inizio ‘900 (quando l’Italia non poteva permettersi il carbone) hanno alimentato l’industria nascente nazionale con l’energia elettrica delle centrali costruite sulle Alpi. Quell’esempio è sotto gli occhi per chi voglia vederlo: un piano per rinverdirlo non è un miraggio da agitare per far contenta una platea di tree hugger

Credito foto di apertura: ufficio stampa Nissan Motor