OPINIONI

La crisi del «Just In Time» fa bene alle… batterie

Dalla scarsità di chip a quella di container la domanda e l’offerta dopo la pandemia parlano lingue diverse e non si capiscono: per la mobilità elettrica e sostenibile l’effetto potrebbe essere sorprendentemente positivo

Il mondo del 2021 è quello in cui il Just In Time non è il fattore che discrimina società e gruppi di successo: è quello in cui li mette al tappeto. Inventato o per meglio dire esaltato da Toyota, è il processo perfezionato in modo maniacale che porta pezzi, componenti, parti, richiesti da una fabbrica o da un esercizio commerciale al momento opportuno minimizzando la necessità di magazzini: col Just In Time i magazzini sono i camion, o ancora più probabilmente container in mare aperto.

Non è solo la crisi sanitaria e l’improvvisa emergenza delle mascherine chirurgiche e dei ventilatori che mancavano nella primavera 2020 ad averlo messo in crisi: da anni ormai si susseguivano avvertimenti, ripetuti avvertimenti. Tsunami, terremoti, episodi che avevano già fermato linee di produzione globali. Ma nessuno, dall’automotive al food ha ascoltato i segnali.

Esacerbati dalla pandemia e ingigantiti da catene di fornitura con colli di bottiglia che possono strangolarla per imprevisti (come si è visto con la chiusura del Canale di Suez) oggi dalla scarsità di container a quella di chip la logistica è un ininterrotto mal di testa, qualunque sia il fuso orario da cui la si guarda.

Nel 2012 Casey Haksins e Peter Sims sulla Harvard Business Review hanno pubblicato un articolo dal titolo “The Most Efficient Die Early”, che non ha bisogno di traduzione. Troppe aziende, già anni fa, si stavano rendendo troppo fragili con la loro ricerca di efficienza, tutte a caccia di una efficienza sempre maggiore senza se e senza ma, invece che di efficienza dovunque questo sia ben motivato.

Così una fonte di forza a lungo salutare nell’ultimo mezzo secolo, oggi si sta rivelando fonte di fragilità. Una lezione vista non solo nel mondo corporate ma da molto tempo temuta, ad esempio, dai militari; come scrivevano allora Haksins e Sims, un generale corresse il motto Just In Time, in “maledettamente troppo tardi”, per la catastrofica differenza che pochi minuti possono fare in una catena della logistica in circostanze critiche.

Inseguendo Toyota, molti gruppi auto oggi stanno pagando la catena della fornitura improvvisamente impazzita con chiusure e tagli alla produzione almeno per il 2021; un ritornello che ha accompagnato le recenti comunicazioni finanziarie dei risultati trimestrali di molti gruppi, da BMW a Ford.

Per decenni quelle efficienze ottenute hanno consentito a molte aziende e ovviamente non solo automotive di arricchire i loro azionisti attraverso dividendi e buyback. La maggior parte dei top manager avevano e hanno redditi in cui sono decisivi i livelli delle azioni delle società che dirigono.

Se vi siete domandati perché i CEO dei gruppi più importanti nei paesi OCSE abbiano, nella stragrande maggioranza, evitato di ascoltare i moniti provenienti dalle precedenti interruzioni alla supply chain che hanno fatto da prologo alla crisi del Just In Time, la risposta è chiara: perché a loro non conveniva.

E con meno capannoni, meno materiali negli inventari, meno articoli realizzati direttamente ma passati in outsourcing, i gruppi che si sono lanciati nel Just In Time hanno potuto anche investire meno, molto meno, destinando quegli investimenti mancati altrove.

Sul New York Times Peter S. Goodman e Niraj Chokshi hanno appena dedicato un lungo articolo alla crisi del Just In Time, segnalando come uno dei colossi della Silicon Valley, Intel, di fronte alla crisi dei chip che sta investendo l’offerta globale, abbia deciso di investire $20 miliardi in nuovi impianti in Arizona. Una cifra importante. Ma meno dei $26 miliardi che la stessa Intel ha utilizzato nel 2018 e nel 2019 per effettuare buyback di azioni proprie.

Tra gli esperti il livello di crisi attuale del confronto tra domanda e offerta sta facendo valutare la possibilità che, al contrario del passato, il Just In Time possa essere accantonato, almeno nella misura in cui ad esso si faceva ricorso fino all’esplosione della pandemia.

Curiosamente, ed è doveroso sottolinearlo, il gruppo Toyota è tra quelli che meno stanno subendo le conseguenze di scarsità di chip, grazie a previsioni più accurate e ad una catena della fornitura che è stata ritagliata più vicina, meno globalizzata, quasi a filiera corta.

In altri termini, e qui forse c’è una lezione, il Just In Time colpisce di più chi ne aveva fatto una routine piuttosto che chi lo aveva adottato considerandolo una necessità di quella che è una emergenza quotidiana.

Il Giappone, anche negli anni in cui non ci sono terremoti o tsunami, vive quotidianamente difficoltà di spazio, risorse, costi esorbitanti dei terreni, che fanno parte di una cultura propria di Toyota e di altri gruppi che con questi spiacevoli fattori hanno dovuto sempre misurarsi.

La pandemia avrà forse sulla logistica un effetto pari a quello della guerra del Kippur sull’energia. Quest’ultima aveva messo fine all’era del petrolio a buon mercato, l’altra potrebbe aver chiuso quella dei container che si muovono lungo il globo a prezzi che rendevano autolesionista avere grandi capannoni per le merci. Cosa significa questo per la mobilità sostenibile?

Nel caso dell’auto nel complesso abbiamo visto il caos creato dall’assenza di chip, con le case abituate ad avere gli ordini esauditi in tempi rapidi che si sono trovate improvvisamente a cozzare contro il muro di gomma di produzione troppo concentrata e con modifiche all’offerta che richiedono mesi.

Si vedono quindi crescere le ragioni per supportare le scelte di integrazione verticale, che Elon Musk dapprima ha propugnato quasi solitario e poi sempre più imitato dai gruppi tradizionali: nel campo dei chip proprio Tesla e altri come Hyundai non nascondono di voler provvedere in proprio.

Ma è nel campo delle celle per batterie che questo avrà probabilmente più effetti e a lungo termine (incluso in Italia se Stellantis confermerà l’ipotesi di un sito di celle nello Stivale). Se piccoli circuiti stampati possono far finire fermi nei piazzali veicoli che altrimenti finirebbero in mano ai clienti, a maggior ragione crescono i motivi per cui le case auto debbano fare il possibile per produrre il cuore delle future auto elettriche non troppo distanti dalle linee di montaggio.

Così prende sempre più consistenza l’eventualità che le scelte recenti di gruppi come Volkswagen, Ford, Stellantis di costruirsi le celle per i veicoli elettrici in proprio (sebbene in collaborazione con chi le celle le produce per mestiere), sia il business plan a cui chiunque non potrà sottrarsi, salvo chi abbia volumi talmente piccoli e di nicchia da non giustificare grandi investimenti.

E sempre la crisi del Just In Time sembra deporre favorevolmente per le prospettive della manifattura occidentale, dopo lustri di outsourcing in Asia. In una intervista dei giorni scorsi al quotidiano finanziario Handelsblatt, il membro del board Volkswagen Thomas Schmall non ha solo ipotizzato di quotare in borsa la divisione che si occupa di batterie per sostenerne gli investimenti, ma anche di cambiare l’approccio a 360°: “nel campo delle batterie comunque dovremo andare più in profondità nella supply chain, verso i fornitori upstream”.

Questo significherà che sempre più spesso i gruppi auto dovranno occuparsi anche della provenienza dei materiali: in attesa di un futuro all’insegna dell’economia circolare per il quale le batterie auto attualmente disponibili sono ancora troppo poco numerose, questo comporta collaborazioni per avvicinare la filiera dove possibile, investendo in progetti più vicini per le materie prime dove disponibili.

Un altro contributo alla ripresa degli investimenti, nonché ad attività che saranno più facilmente controllabili nella loro sostenibilità, rispetto a progetti e siti opachi rivelati nel recente passato da alcune materie prime, ad esempio nel caso del cobalto.

Così, dopo l’avvio di Joint venture che serviranno a slegare i gruppi auto da una dipendenza eccessiva dai produttori asiatici di batterie, non è difficile immaginare che grandi consumatori di commodities come Toyota, Volkswagen, Ford, possano decidere di ripetere scelte analoghe anche dove si tratta di materie prime: per evitare che i piani ben congegnato da sempre più gruppi per nuove Gigafactory poi entrino in crisi per difficili approvvigionamenti di metalli e materiali attivi.

Credito foto di apertura: ufficio stampa Maersk