Perché il ‘deserto del profitto’ per l’auto elettrica è un pericoloso miraggio
BCE e FED, pronte a riarmare il bazooka della liquidità a bassissimo costo, preparano il terreno per uno scenario in cui in termini reali chi investirà sarà pagato per prendere a prestito il denaro
Ad una conferenza dell’associazione americana dei giornalisti dell’auto tenutasi a Detroit soltanto due mesi fa, Mark Wakefield (analista della società di consulenza AlixPartners) aveva sottolineato gli effetti della coincidenza temporale della necessità di investire in innovazione mentre la salute globale del settore peggiora.
In altri termini Wakefield aveva anticipato che per i gruppi auto si prospetta una fase di vacche magre, definendola una traversata del ‘deserto del profitto‘. Quello che Wakefield sapeva due mesi fa, era che i gruppi globali dell’auto avrebbero dovuto fronteggiare la necessità di finanziare oltre $300 miliardi da investire entro il 2025, di cui circa $225 miliardi per la mobilità elettrica ed il resto sull’automazione.
Quello che l’esperto di AlixPartners non sapeva ancora due mesi fa, era che la sfida di investire in un settore come l’auto elettrica (che a metà della prossima decade sarà ancora minoritario nel mercato del nuovo globale) avrà inaspettatamente nelle vele il vento di una massa di easy money che solo sei mesi fa appariva una fase del passato.
Mentre scendono le quote delle vendite mondiali, esposte ai venti di recessione, c’è ormai un’altra coincidenza temporale che sta prendendosi il ruolo di protagonista: il calo dei tassi. La prossima riunione della Banca Centrale Europea, il 12 settembre, sarà l’occasione per confermare un pacchetto di misure di stimolo e una politica monetaria molto accomodante.
Il governatore della Banca Centrale finlandese Ollie Rehn, che la settimana scorsa ha anticipato il contenuto della riunione, ha sottolineato che le misure andranno oltre le aspettative dei mercati, con taglio dei tassi e quello che appare un Quantitative Easing 2, la riapertura degli acquisti netti di attività.
AlixPartners durante l’evento di Detroit aveva indicato che i livelli attuali di vendite torneranno verso il 2025. Nel frattempo gli investimenti che i gruppi auto avrebbero comunque dovuto sostenere (con una fase acuta di spesa che durerà almeno un triennio, probabilmente di più) cadranno in un momento irripetibile.
Una fase in cui i settori pubblico e privato saranno letteralmente pagati per prendere a prestito denaro, con tassi nominali bassissimi e reali negativi che fino a pochi mesi fa sembravano destinati ad essere una anomalia del recente passato.
Invece, in questa fase in cui persino la logica del pareggio di bilancio della morigeratissima Germania viene messa in questione, temere gli investimenti in innovazione o addirittura fare marcia indietro si può tradurre in un percorso autolesionistico, nell’inseguimento di un miraggio di un’era dell’auto che è alle spalle.
La tentazione sarà forte per board ed azionisti, abituati (o forse dovremmo dire viziati) a margini EBIT che per i migliori gruppi come BMW, PSA Toyota ancora si aggirano su percentuali dell’8%. Ma cedere ai timori limitando gli investimenti proprio in questa epoca può essere una ricetta dalle conseguenze devastanti a medio e lungo termine.
Quanto strettamente possa essere collegata la prossima fase dell’easy money nei paesi avanzati alla possibilità di finanziamento delle grandi imprese private, ce lo ricorda il panorama della fine del 2018. Un anno in cui le emissioni di corporate bond secondo i dati della società specializzata Dealogic avevano raggiunto il punto più basso da dieci anni.
Un calo che prefigurava ed anticipava l’annuncio, arrivato ufficialmente il 13 dicembre 2018, della fine del programma di stimolo all’economia da $3 trilioni che aveva visto la BCE stessa acquistare oltre ai titoli di stato anche obbligazioni societarie investment grade.
A partire dal 2016 col programma CSPP (corporate sector purchase program) erano finiti a Francoforte oltre €176 miliardi di debito societario di aziende della Vecchia Europa, all’incirca un quinto delle emissioni del periodo corrispondente.
Il quantitative easing 2 della BCE e le misure della FED saranno una manna per i gruppi auto, tra i clienti abituali dei bond market globali per gestire al meglio i propri cash flow in entrata ed uscita
Non è un mistero che i gruppi auto siano tra i clienti abituali del bond market, perché i loro business model hanno come noto un cash flow rapido all’ingresso ed altrettanto all’uscita.
Nel novembre 2018 il gruppo Volkswagen attraverso proprie divisioni, era andato due volte nel giro di due settimane sul mercato a cercare un totale di €12 miliardi, in parte finanziati in dollari ed in parte in valuta continentale.
Come era successo poche settimane prima al gruppo farmaceutico francese Sanofi, lo scorso anno a Wolfsburg avevano constatato che al contrario di quello che accadeva all’apice del quantitative easing il cambio di registro in corso incideva e molto sul prezzo del finanziamento, salito di 100 punti base tra gennaio e novembre 2018.
Per chi ha già preso le sue decisioni sugli investimenti da fare nell’elettrificazione, un contesto che include i tre maggiori gruppi globali, Volkswagen, Alleanza franco-giapponese e più recentemente Toyota (quest’ultima per ora soprattutto in Cina) l’easy money sarà un supporto ulteriore nella fase di transizione prima che le auto elettriche diventino redditizie, fornendo oasi alla traversata del ‘deserto del profitto‘.
Tanto più grande sarà il sollievo quanto maggiori sono gli investimenti decisi e programmati quando il quantitative easing 2 sarà attivo. Una svolta che potrebbe anche essere il fattore decisivo per far partire in Europa oltre alla svolta dell’auto elettrica anche la manifattura di batterie: come noto un settore in cui gli impianti sono ad altissima densità di capitale.
Quella a cui assisteremo dal 12 settembre in poi potrebbe rivelarsi l’esito di una scommessa molto fortunata per alcuni: a cominciare dal numero uno di Wolfsburg Herbert Diess, che lo scorso marzo alla conferenza stampa annuale del gruppo Volkswagen ha lanciato l’obiettivo di 22 milioni di auto elettriche da produrre negli Anni ’20, con una quota di auto elettriche pure al 40% alla fine della prossima decade.
Due, tre mesi fa appariva un progetto da finanziare in condizioni difficili: con la progressiva fine della politica accomodante della BCE e con i rialzi della FED americana tenere dollari era diventato più conveniente che tenere corporate bond. Ma ormai la direzione di una fase che qualche analista aveva già iniziato a chiamare un bear market al rallentatore sta cambiando.
Col quantitative easing 2 la finestra di opportunità si sta riaprendo per i gruppi industriali europei, e lo stesso con altre modalità dovrebbe avvenire per i quelli dell’altro lato dell’Atlantico.
Gli effetti collaterali delle guerre commerciali volute dalla Casa Bianca stanno preparando il terreno perché gli amministratori delegati siano inseguiti dagli operatori del mercato per prendere a prestito soldi da investire.
Che l’effetto delle politiche protezionistiche attualmente predilette da Washington possano finire, nel caso dell’automotive, con l’agevolare una innovazione e una corsa alla sostenibilità che oggi il governo americano vede con particolare sospetto è certo un altro paradosso.
Il quantitative easing 2 sarà certo una boccata di ossigeno al momento cruciale per gruppi come quelli dell’auto che hanno davanti grandi spese in conto capitale. Per le aziende di altri settori si possono affacciare dubbi e timori.
In Danimarca, dove già gli effetti dei tassi in calo cominciano ad affacciarsi nel settore bancario retail, il numero uno del gruppo Carlsberg Cees ‘t Hart ha espresso la sua preoccupazione che le aziende si indebitino solo perché è possibile farlo a condizioni irripetibili.
Il timore che settori produttivi si sbilancino in questa fase in cui c’è perfino una banca danese che ha offerto un mutuo decennale a tassi nominali negativi, facendo il passo più lungo della gamba, esiste.
Ma per il settore automotive l’era del quantitative easing 2 andrebbe a inserirsi in una fase in cui la necessità di cambiare era già ben chiara ad ogni board, da Detroit a Nagoya. Il caveat che riteniamo di segnalare non riguarda quindi l’opportunità di investire in innovazione per i gruppi auto.
Piuttosto riguarda le dimensioni del mercato delle obbligazioni nel complesso: come segnalava una nota dell’OCSE di pochi mesi fa, il mercato globale dei corporate bond ha raggiunto i $13 trilioni. La quota di emissioni relative ai paesi avanzati equivale a circa il 79%, mentre il rimanente fa capo ai paesi emergenti, tra i quali ci sono anche Cina ed India.
Un totale che è quasi il doppio della sua taglia pre-2008, e circa il 54% non ha un grado di rating elevato. L’aspetto incoraggiante per i gruppi auto che dovranno investire, è che secondo le cifre analizzate da S&P Global Ratings il debito speculativo matura soprattutto dopo il 2022. La finestra tra oggi e il 2022 potrebbe essere in altri termini una fase di mercato di qualità e a condizioni estremamente favorevoli per chi emette. Se non ora, quando?