OPINIONI

La mobilità elettrica ed autonoma è dove le startup non diventano mai grandi

Un fiume di investimenti beneficia le startup: da Apex.AI a TravelCar, dalle opportunità per Lucid Motors alle certezze per Aurora Innovation. Una sicurezza che mette fine all’indipendenza?

Toyota AI Ventures, un fondo di capitale di rischio avviato nel 2017, seleziona startup sostenendole con investimenti strategici che le accompagnino verso traguardi in grado di contribuire al ventaglio di progetti innovativi dei marchi del gruppo giapponese.

L’ultimo investimento approvato andrà a sostenere Apex.AI, una società aperta da Jan Becker e Dejan Pangercic che punta a sviluppare software open source per farlo diventare sempre più sicuro e robusto impiegandolo in usi collegati al settore della guida autonoma.

Facendo un paragone coi software di computer o smartphone, Apex.AI sta rendendo sempre più stabile ed efficace il sistema operativo ROS 2 (evoluzione del Robot Operating System che ancora è alla base di decine di progetti di veicoli autonomi o apparati robotici) per farne un macOS o un Android sul quale gli sviluppatori possano creare centinaia di app, in questo caso programmi e sistemi per auto connesse o autonome.

Becker e Pangercic provengono già dalla filiera automotive, dopo una fase professionale in Bosch. Hanno per qualche tempo fatto parte del progetto (sfortunato) Faraday Future, prima di aprire Apex.AI. Il percorso dei “cervelli” di questa startup dal numero uno della fornitura auto tedesca al numero uno dell’auto giapponese è rivelatore anche perché tutt’altro che raro.

Giovedì scorso il gruppo francese PSA ha confermato che l’investimento iniziato ormai quasi tre anni fa nella startup TravelCar si è trasformato in una acquisizione della società. TravelCar offre via app a circa un milione di iscritti parcheggio e varie soluzioni di noleggio dell’auto, incluso quello peer-to-peer.

Le competenze di piccole startup e dei loro staff sempre più spesso diventano una risposta alle necessità di grandi gruppi che prendono le misure alla trasformazione dalla produzione e commercializzazione di auto ad una nuova e ancora da costruire filiera di servizi di mobilità.

Ma anche dove il tema è quello della manifattura e della produzione, l’interesse dei grandi gruppi verso piccole startup può essere ravvivato da competenze particolari. Il responsabile dello sviluppo dell’americana Lucid Motors Anthony Rawlinson ha svelato in questi giorni di avere aperto trattative con gruppi interessati alla tecnologia sviluppata in California sui veicoli elettrici e sulle batterie.

Rawlinson ha sottolineato che le trattative sono finalizzate a tenere vivo il marchio Lucid Motors e a portarlo verso una quotazione che ne assicuri la continuità. Ma per arrivare ad una produzione stabile e affidabile, come ha dimostrato Tesla con le difficoltà attraversate per giungere a ritmi settimanali elevati nella linea della Model 3, occorre una inesauribile capacità di attingere a fondi freschi.

Là dove si parla di auto ed innovazione, i due soli percorsi praticabili dei prossimi anni sembrerebbero essere: alleanze e partenariati per tenere sotto controllo i costi per i grandi gruppi, da Ford a Volkswagen, o in alternativa per le startup puntare alla crescita fino all’acquisizione da parte di un grande gruppo.

Il sogno americano della parabola della startup dal garage nella Silicon Valley al ruolo di favorita di Wall Street, che Tesla nel mondo delle quattro ruote per molti mesi sembrava destinata a ripetere, alla luce degli ultimi sviluppi sembra soprattutto un sogno.

Nello spazio della mobilità innovativa i casi esemplari e fortunati ormai sono considerati quelli di Mobileye, acquisita da Intel e che ha conservato quasi piena indipendenza e Cruise Automation diventata il braccio operativo di General Motors nella guida autonoma.

I protagonisti più piccoli, le decine di TravelCar oggi attive, realtà che hanno risorse importanti ma non uniche, paiono destinati ad essere assorbiti in un panorama nel quale sembra valere la regola di un’economia winner-take-all.

Nel 2014 l’economista Mohamed El-Erian aveva scritto un commento molto dibattuto alla sua pubblicazione che, nei giorni dell’acquisizione di WattsApp da parte di Facebook, guardava soprattutto al settore della new economy e dell’informatica.

All’epoca, l’app per gli smartphone era stata considerata avere più valore di mercato di uno storico colosso industriale come Sony. El-Erian sottolineava con malcelata preoccupazione come quegli episodi potessero indicare che fosse sempre meno giustificato il vincolo tra spesa in investimenti e risultati.

Un timore suffragato da anni in cui la “regina” della crescita dei ricavi e dei profitti, Apple, aveva a bilancio spese di ricerca e sviluppo molto inferiori a quelle di una Microsoft, certo non supportata dallo stesso favore degli investitori. Fino a poche settimane fa, però.

Proprio l’economista, ora chief economic advisor del gruppo Allianz, sottolineava che nel mondo del winner-take-all conta azzeccare un prodotto: in quel caso l’iPhone. Adesso iniziamo a vedere, con il picco di gradimento dell’iPhone apparentemente ormai alle spalle, il rovescio di quella medaglia.

E con il beneficio di qualche anno in più di risultati ora visibili, possiamo perfino provare a chiederci se nel settore della mobilità innovativa quel fenomeno sia sul punto di ripetersi, facendo le differenze del caso, o se occorre rassegnarsi al fatto che anche qui le startup non diventano mai grandi.

Rispetto alla new economy non sembra più possibile trovare una Apple dell’automotive in grado di emergere con il solo fiuto per la novità giusta: l’esplosione degli investimenti per imporsi con nuovi prodotti e servizi riguarda tutti.

Le Volkswagen (gli alfieri della manifattura) passano alla cassa per finanziare fabbriche con la stessa obbligata prodigalità con la quale lo hanno fatto le Uber (i paladini dei servizi) per finanziare l’espansione capillare della loro offerta.

Ma anche tra i grandi gruppi, gli ultimi segnali da Jaguar Land Rover in proposito sono chiari, solo pochi sembrano in grado di sostenere a lungo elevati livelli di capex per arrivare ai risultati. A maggior ragione, per una quota dominante di startup dei vari sotto-settori collegati all’innovazione sembra essenziale riuscire a sviluppare prodotti o servizi che a chi deve investire appaiano determinanti qui e adesso.

Rispetto agli anni d’oro della new economy tra le startup potrebbe presentarsi qualche raro caso di winner-take-all: nel mondo della nuova mobilità l’equivalente della killer app potrebbe essere indifferentemente un nuovo sensore o un nuovo algoritmo a prova di bomba (e hacker).

Una traccia per capire chi o cosa stia emergendo con queste caratteristiche potrebbe essere il puro e semplice stillicidio di dollari che si riversano nelle casse di una startup. Se questo è il metro, una candidata ideale appare essere Aurora Innovation, che ha appena chiuso un nuovo round di finanziamenti di $530 milioni.

Tra gli investitori che hanno aperto il portafoglio valutando la startup che sviluppa sistemi per veicoli autonomi oltre $2 miliardi figurano: Sequoia Capital (fondo supportato da Amazon e da T. Rowe Price, secondo azionista di Tesla dopo Elon Musk), Shell Ventures, Lightspeed Venture Partners e Geodesic.

Finora Aurora, che ha già accordi per lo sviluppo di sistemi per la guida autonoma con i gruppi Volkswagen e Hyundai, è apparsa piuttosto ferma nel volersi porre come interlocutore e fornitore per chiunque abbia bisogno dei suoi servizi. Il management messo insieme è una sorta di dream time del settore formato da Chris Urmson, Drew Bagnell e Sterling Anderson, e i tre avrebbero già rifiutato una offerta di acquisizione del gruppo Volkswagen.

L’arrivo di Amazon tra gli investitori è certo una solida garanzia economica per il futuro di Aurora. Meno chiaro è se avere ora nel capitale un colosso come il gruppo di Jeff Bezos, che per le proprie future esigenze di logistica certamente sarà interessato al potenziale dei sistemi per la guida autonoma, potrà consentire a lungo termine alla startup americana di resistere da entità indipendente. “Diventare grandi” forse può rivelarsi più difficile nell’auto del XXI° secolo che nella new economy.


Credito foto di apertura: press kit Aptiv