INFRASTRUTTURA

A quanto ammonta il degrado di una batteria impegnata in servizi V2G?

Un team di ricercatori del Politecnico di Danimarca ha misurato empiricamente e creato un modello per trovare la risposta: l’1% annuo è la perdita dovuta al degrado nelle batterie LMO; ora si studiano effetti su celle più moderne

Nel corso degli ultimi mesi l’interesse dei maggiori gruppi auto per la tecnologia vehicle-to-grid (V2G) è cresciuto in modo considerevole: interesse talvolta principalmente di sfoggio tecnologico, come per Mercedes-Benz che ha deciso di dotarne (inizialmente in Giappone) l’ammiraglia EQS, ma sempre più diffusamente anche commerciale, come hanno esplicitamente dichiarato Volkswagen e in particolare Renault, che farà del settore uno dei futuri pilastri della propria divisione Mobilize.

Da alcuni anni uno degli ambiti di ricerca avanzata di cui si occupa il DTU, il noto Politecnico di Danimarca, riguarda proprio attività e servizi vehicle-to-grid. E uno degli aspetti essenziali dell’opportunità di rendere pratica e diffusa questa tecnologia è il mettere a fuoco il potenziale degrado a cui la ricarica bi-direzionale sottopone le celle delle batterie utilizzate a questo fine.

Un paper pubblicato nei giorni scorsi col titolo “Empirical Capacity Measurements of Electric Vehicles Subject to Battery Degradation from V2G Services” è in grado di scattare una “fotografia” realistica degli effetti a lungo termine di questo impiego, grazie a un lungo e costante monitoraggio di dieci veicoli elettrici in servizio presso l’utility Frederiksberg Forsyning A/S.

I veicoli, più esattamente i loro pacchi batterie, nel corso degli ultimi cinque anni hanno provveduto ad interventi di regolazione della frequenza primaria della rete per 15 ore al giorno, ore in cui le batterie erano collegate ad appropriati apparati bi-direzionali: charger da 10 kW.

Andreas Thingvad, dottorando del DTU che ha seguito come autore di riferimento questa ricerca, sottolinea che ciascun veicolo è stato in grado di generare circa €1.100 di ricavi annuali, sebbene l’attività intensa non sia stata priva di effetti sulla durata della batteria.

Thingvad ha spiegato che, sebbene i veicoli siano stati utilizzati in media solo 7 chilometri al giorno, l’attività riguardante il servizio V2G connesso alla rete corrisponde ad un utilizzo quotidiano, prevalentemente notturno, di 100 chilometri aggiuntivi.

Presso il DTU, durante questo progetto a cui hanno preso parte il Professor Mattia Marinelli e la ricercatrice Lisa Calearo (e Peter Bach Andersen), sono stati in grado di misurare la capacità della batteria di tutte e dieci le vetture per sei volte nel corso degli ultimi tre anni per effettuare riscontri empirici costanti ed attendibili di quello che il V2G pretende dalle celle, e a questo fine è stato anche sviluppato un metodo estensivo per misurarne la capacità mediante accesso al connettore DC dei veicoli.

Le linee si riferiscono allo SOH (state of health) dei dieci veicoli elettrici che hanno partecipato al programma di servizi V2G; il modello dei ricercatori del DTU ha identificato una perdita di capacità annua della batteria dell’1% dovuta al degrado cui l’hanno sottoposta i cicli aggiuntivi rispetto all’invecchiamento naturale per il crescere dell’età della batteria. (credito grafico: “Empirical Capacity Measurements of Electric Vehicles Subject to Battery Degradation from V2G Services”, pubblicato da “IEEE Transactions on Vehicular Technology”

Sui veicoli elettrici, Nissan E-NV200 di prima generazione con celle AESC (oggi Envision AESC) dalla chimica LiMn2O4, la batteria utilizzabile inizialmente aveva capacità di 24 kWh: dopo due anni la media si era ridotta a 20,7 kWh e dopo cinque anni a 18,9 kWh.

Come ha sottolineato il Professor Marinelli “quelle celle sono LMO, chimica che è stata un po’ abbandonata appunto perché piuttosto suscettibile a degradazione (più di altre chimiche). Stiamo al momento monitorando anche le Leaf 30 kWh, anche queste stanno facendo frequency control con lo stesso approccio degli e-NV200 e dovrebbero avere celle miste LMO/NMC e quindi essere più resilienti (la presenza di cobalto, nonostante tutti i problemi che la sua estrazione comporti, migliora la stabilità)”.

Per capire e distinguere sulle celle LMO gli effetti di invecchiamento spontanei e separarli dall’attività connessa alla tecnologia V2G, è stato realizzato anche un modello di simulazione apposito, che ha indicato agli scienziati che all’attività di scambio di energia quotidiana (in media 50,6 kWh) è corrisposto un degrado aggiuntivo della capacità della batteria dell’1% l’anno.

Non ancora paghi, gli esperti hanno anche indicato che tipo di costo economico possa avere la gestione di una veicolo inserito in un programma di ricarica V2G: secondo il DTU la perdita si può quantificare in un importo di €86 l’anno, la parte più importante del complessivo attribuibile non al degrado da utilizzo aggiuntivo della batteria, piuttosto  alla perdita di energia dal caricatore quantificata in 3,3 MWh/anno, che considerato un prezzo di settore indicato in €80/MWh, si sarebbe tradotto in €263 annui.

La ricerca ed il paper che ne è scaturito in buona sostanza si può ritenere il caso realistico ed effettivo più stressante a cui può essere sottoposta una batteria con applicazioni V2G, con in campo un rapporto potenza/energia piuttosto alto. E il contributo si può ritenere proprio per questo più interessante, con futuri possibili spazi per miglioramenti.

Quello che appare più ovvio riguarda la chimica delle celle: le più moderne celle NMC (nichel, cobalto, manganese), le NCA (nichel, cobalto, alluminio) e soprattutto le LFP a base ferrosa dovrebbero essere molto più resilienti quanto a effetti sulla vita utile. Ma il docente italiano ha rimarcato come anche altri ambiti, quali gli accoppiamenti macchine/charger e gli stessi apparati abbiano spazio per chi voglia efficientarli.

“Le macchine da 24 kWh sono collegate a caricatori da 10 kW, cosa che va comportare un lavoro piuttosto intenso”, spiega Marinelli. ” Chiaramente la situazione non cambia di molto se uno collega un charger da 30 kW ad una macchina da 72 kWh, conservando lo stesso rapporto potenza/energia, ma collegando la macchina da 72 kWh ad un charger da 10 kW il numero di cicli scenderebbe”.

Inoltre un settore ancora così giovane vede spazio nel partner della batteria, che finora anche per i volumi piccoli interessati non ha ricevuto impulsi sostanziali. Ma c’è da ritenere che questo possa cambiare, conferma lo scienziato del DTU: “quei charger, nonostante siano migliorati nelle nuove versioni, hanno ancora efficienze non proprio eccezionali a bassi regimi, che paradossalmente è dove vanno a lavorare più spesso. Tutto questo si traduce in perdite e in cicli che potevano essere evitati. C’è decisamente margine di miglioramento, anche in termine di costo del charger“.

Un altro potenziale contributo potrebbe venire dai caricatori di bordo. Anticipa infatti Marinelli: “l’adozione di charger bi-direzionali all’interno del veicolo (in sostituzione dei tradizionali charger puri che vengono installati tuttora) sarebbe un metodo valido per abbattere i costi”.

Credito foto di apertura: courtesy Technical University of Denmark