Quei “nuovi” materiali che spingono per entrare nelle batterie: dallo zinco allo zolfo
Nuove ricerche e brevetti si guadagnano attenzione dal Giappone all’Australia, ma è l’umile sodio che consentirà alla startup Tiamat di mettere prestissimo in movimento la produzione ad Amiens
La prossima primavera un consorzio formato da una ventina di aziende giapponesi e dall’università Doshisha inizierà a sviluppare una cella basata sulla tecnologia studiata presso l’ateneo di Kyoto dal professore di elettrochimica Masatsugu Morimitsu. La notizia è riportata dal maggiore quotidiano nipponico Mainichi ed indica in tre anni il periodo di tempo necessario per trovare sbocchi pratici.
Col giornale giapponese il professor Morimitsu ha sottolineato stabilità ed alta capacità della cella, che si affida a una chimica zinco-nickel: “una batteria zinco-nickel usa una soluzione acquosa alcalina come elettrolita e non vi è rischio che si verifichi combustione. Una cella di questo tipo potrebbe forse espandere la capacità delle batterie secondarie per auto ibride ed altri dispositivi di una volta e mezzo o del doppio”.
Il professor Morimitsu e gli altri ricercatori di Doshisha hanno utilizzato nickel per l’elettrodo positivo e zinco all’elettrodo negativo. Come da tempo noto, l’uso di metallo (in particolare litio) all’elettrodo negativo può creare problemi più o meno rapidi di instabilità: per superarli il team giapponese ha fatto ricorso alla protezione dell’anodo di zinco con un particolare rivestimento brevettato che consente di mantenere l’efficienza anche dopo 5.500 cicli di carica e scarica.
Nel 2013 lo stesso ateneo e lo stesso professore avevano ottenuto un brevetto, anche negli Stati Uniti, che riguardava un procedimento di estrazione elettrolitica (electrowinning) nel quale interveniva un rivestimento di ossido di iridio sull’anodo di zinco. Peraltro nel colloquio col Mainichi il docente non fa riferimento a quella precedente scoperta, per cui non è detto che proprio in quello consista il trattamento dell’elettrodo negativo.
Il team dell’università di Kyoto da tempo era impegnato nello studio di batterie alternative a quelle convenzionali agli ioni di litio. Nella primavera dello scorso anno aveva ottenuto fondi dal ministero giapponese dell’ambiente per sviluppare un altro tipo di batteria che si caratterizza per sicurezza e costi contenuti: quella all’idruro di metallo/aria.
Lo stesso tipo di chimica sta rincorrendo da qualche anno un team del Caltech di Pasadena e del JPL della NASA. Grazie a finanziamenti che provengono dall’agenzia federale ARPA-E, il gruppo di ricerca attualmente sviluppa come materiali per gli anodi leghe quaternarie basate sul vanadio e sta cercando di ottimizzare i catalizzatori per il catodo mediante perovskiti e altre leghe.
L’interesse di queste settimane per le chimiche alternative è stato rafforzato anche dalle notizie su ricerche riguardanti la tecnologia litio-zolfo. È noto lo straordinario potenziale teorico di questa chimica: capacità dell’anodo fino a ~3,800 mA g-1 e per il catodo di ~1,675 mA g-1 che si tradurrebbe in densità di energia sulla carta fino a ~2.600 Wh/kg-1.
Peraltro nella pratica finora la teoria si è scontrata da un lato con l’effetto shuttle che investe i polisolfuri di litio depauperando il materiale attivo coi cicli di carica e scarica e dall’altro con la tendenza ad espandersi, fino al 78% in più rispetto alle chimiche delle celle convenzionali, del catodo di zolfo.
Molti studi hanno finora cercato soluzioni soprattutto al problema dell’effetto shuttle, ad esempio con elettroliti solidi tipo-NASICON; anche in Italia, in particolare presso l’ENEA, ci sono in corso ricerche. In quest’ultimo caso i ricercatori ENEA puntano a utilizzare all’anodo nanoparticelle in carbonio contando su questi componenti per intrappolare i polisolfuri di litio.
Un percorso diverso, sempre restando nell’ambito della tecnologia litio-zolfo, è quello che sta seguendo un team multinazionale che spazia tra atenei tedeschi, belgi e soprattutto australiani, con un trio di ricercatori della Monash University che ha nei giorni scorsi pubblicato su Science Advances i risultati di una ricerca che punta a passare nei prossimi anni dalle celle sperimentali prodotte all’istituto Fraunhofer, a celle commercialmente disponibili.
Nell’articolo “Expansion-tolerant architectures for stable cycling of ultrahigh-loading sulfur cathodes in lithium-sulfur batteries” Mahdokht Shaibani e gli altri ricercatori hanno spiegato come abbiano puntato sulle caratteristiche meccaniche del catodo di zolfo per cercare un modo per incanalare in modo gestibile l’espansione del materiale durante i cicli di vita della cella.
Per far meglio tollerare lo stress all’elettrodo, il team della dottoressa Shaibani e colleghi ha cercato un materiale legante per l’impasto che, pur tenendolo insieme, lasci spazi nei quali le particelle di zolfo possano espandersi durante la carica. L’agente legante dello slurry è un materiale tradizionale, ma lavorato in modo innovativo. Che queste connessioni lascino la maggior della superficie delle particelle accessibili all’elettrolita è un beneficio, consentendo migliori interazioni col litio.
L’aspetto che forse ha creato più interesse per questa ricerca, che sembra spregiudicatamente ottimista sulle parallele possibilità di risolvere il rilevante problema dell’effetto shuttle (al quale l’articolo non porta di fatto alcun contributo), è che i materiali ed i processi chiamati in causa sono compatibili con quelli convenzionali. Un fattore da tenere sempre presente nel determinare la popolarità con la quale vengono accolte le innovazioni.
Non è invece nel solco dell’attuale produzione delle celle agli ioni di litio invece un altro progetto che punta, piuttosto che su zinco e zolfo, su un’altra chimica alternativa al litio dominante: quello di Tiamat Energy basato su batterie agli ioni di sodio.
Eppure quello della startup di Amiens, al contrario delle altre attraenti ricerche che abbiamo appena esaminato, non andrà in produzione a metà degli Anni ’20 o perfino oltre: l’avvio della linea di produzione è ormai questione di mesi, anziché di anni.
Oltre sei anni di ricerche che hanno visto coinvolti inizialmente Collège de France e CSIC di Barcellona, poi supportati da gruppi di lavoro delle agenzie francesi CNRS ed RS2E, nonché da centri universitari d’eccellenza come LRCS di Amiens (di cui AUTO21 si è occupato di recente), CIRIMAT di Tolosa ed ICMCB di Bordeaux stanno accompagnando la società diretta da Laurent Hubard e Iona Moog alla svolta concreta che si traduce in manifattura.
Tiamat viaggia verso un prodotto che fa leva sui costi bassi e la sostenibilità della materia prima sodio, sulla facilità di ricarica veloce senza danneggiare gli elettrodi della cella, pronta perfino in cinque soli minuti (ideale per prodotti di successo della nuova mobilità come le biciclette a pedalata assistita e i monopattini elettrici), sulla stabilità della cella rispetto al meno tollerante litio anche dopo una lunga vita di cicli di cariche e scariche, e sulla densità di potenza elevata.
La densità di energia inferiore a quella delle celle concorrenti agli ioni di litio, nel migliore dei casi le celle Tiamat si attestano a densità di 120 Wh/kg contro i 230, 240 Wh/kg delle migliori celle ternarie, non rendono per ora interessante la tecnologia agli ioni di sodio come alternativa per le automobili.
Ma i numeri di crescita delle quote di vendite di due ruote elettriche o dei robot industriali lasciano pensare che una azienda giovane come quella di Amiens abbia un parco clienti da inseguire già più che adeguato, prima di volersi mettere a fare concorrenza a colossi come CATL o Panasonic nel loro regno abituale.