OPINIONI

Il nuovo presidente farà lo sgambetto a Tesla?

Con l’elezione di Donald Trump sembra destinato a rallentare lo sviluppo dei veicoli elettrici, ma solo in America

Venti anni fa un presidente eletto che, come Donald J. Trump, ha promesso durante la sua campagna di fare carta straccia degli impegni sul cambiamento climatico e di ridurre le restrizioni alle normative sulle emissioni sarebbe stato entusiasticamente appoggiato dai gruppi americani dell’automobile. Che finora non sia stato così è un segnale di quanto sia diventato complicato il mondo e l’economia che lo fa girare.

Il prossimo inquilino della Casa Bianca, in effetti, con le case auto ha duellato verbalmente, ma soprattutto per questioni che riguardavano le politiche aziendali che comportano lo spostare produzioni all’estero. Negli ultimi anni da Ford a General Motors, da FCA a tutti i costruttori giapponesi e tedeschi non manca un marchio che non abbia contribuito ai $24 miliardi di investimenti in Messico che ne hanno fatto il secondo produttore di auto nordamericano davanti al Canada.

Tutto questo c’entra qualcosa coi temi dell’automobile del futuro, elettrica o autonoma di cui si occupa questo blog? Di fatto, i progetti futuristici delle case, americane o no, con lo stato centro-americano hanno poco o niente a che fare. Le fabbriche del Chiapas o di Monterey sono sorte per questioni di costi interni e di dazi esterni (esportare da lì in Europa costa meno che dagli U.S.A., tra l’altro).

Il conflitto commerciale col Messico non ostacolerebbe i progetti americani sulle auto elettriche, ma la probabile marcia indietro sulle emissioni sì

I progetti sull’auto a zero emissioni non sembrano dover soffrire per l’ipotetico muro sul Rio Grande. Perché le Chevrolet Bolt e le Tesla nascono in stati come Michigan, California e Nevada. Sembra improbabile che il quarantacinquesimo presidente voglia fermare in modo diretto produzioni americane. Produzioni che, peraltro, sembrano tutt’altro che una immediata minaccia ai pick-up e SUV che amano gli elettori di Trump. La società di consulenza IHS Automotive stimava (prima delle elezioni) che le vendite di auto elettriche in America quadruplicheranno di qui al 2020.

Ma 320.000 auto non arrivano al 2% del mercato statunitense. Trump insomma, anche se dovesse sbarrare la strada alle auto elettriche, non sarebbe una vera minaccia per i conti delle case americane. Altra questione, se i dazi sui prodotti messicani dovessero trasformarsi in realtà, è quella degli investimenti. I tanti soldi spesi in Messico dai tre grandi americani (e da giapponesi ed europei) andranno in qualche modo ammortizzati.

Ma quello che hanno speso negli impianti ora minacciati dalla nuova presidenza, forse le case americane potrebbero almeno in parte recuperarlo risparmiando in altre voci dei propri bilanci. Ad esempio, sembra di capire, nella ricerca e sviluppo per motori endotermici più parchi nei consumi. Il prossimo candidato alla guida dell’Environment Protection Agency Myron Ebell è un addetto ai lavori che nega risolutamente il cambiamento climatico.

Mentre si aspetta il suo insediamento, l’associazione dei costruttori americani ha giocato d’anticipo chiedendo subito compatta (tranne Tesla) al prossimo presidente di fare slittare i tempi delle normative che prevedono la riduzione di consumi ed emissioni fissati al 2025. Tutti i gruppi dell’auto avrebbero dovuto fare i conti con queste scadenze rispettado consumi di 54,5 miglia per gallone (considerati nell’arco della gamma completa venduta da ciascuno).

Un valore già ora non irraggiungibile: la nuova Hyundai Ioniq può vantare un valore di 58 miglia per gallone che supera quello della rivale Toyota Prius, ferma a 56 miglia. E pochi giorni fa il giornalista americano Hans Greimel, effettuando una prova della piccola Nissan Note e-Power (una ibrida seriale in cui il motore elettrico è spinto dalla batteria, a sua volta ricaricata da un tre cilindri), ha twittato un valore astronomico: 37,5 km/l. Sono 88 miglia per gallone!

Si tratta però di valori da cui la grande maggioranza dei modelli delle case americane sono lontanissime. Nel complesso per i gruppi di Detroit rinviare l’entrata in vigore dei parametri più restrittivi sui consumi significa poter prolungare la vita di quei pick-up e SUV che ora hanno un gran successo (FCA ha la proporzione più alta di questi modelli). Inoltre le politiche di Trump favorevoli alla produzione di petrolio e gas locali, che hanno avuto un boom col fracking, terranno probabilmente bassi i prezzi dei carburanti, evitando di scoraggiare i clienti.

Quindi non meraviglia che l’associazione dei costruttori abbia scritto a Trump: “la combinazione di bassi prezzi del carburante e i miglioramenti nei consumi in essere, dovuti a fasi precedenti dei programmi di abbattimento dei consumi, stanno assottigliando la volontà dei consumatori di comprare veicoli con propulsori alternativi più costosi che sono necessari perché il settore adempia ai più stringenti standard dei prossimi anni“.

Questo significa forse che negli Stati Uniti le auto elettriche sono già sulla soglia della pensione? E’ una conclusione precipitosa. Una grande perdente in questa svolta però sembra già esserci: Tesla. Non perché venderà meno auto (improbabile che la sua clientela fortemente fidelizzata cambi parere di punto in bianco) ma per un motivo strettamente economico.

Gli altri costruttori che con la normativa stringente avrebbero dovuto tagliare i consumi, per evitare di pagare sanzioni sullo sforamento delle regole avrebbero dovuto comprare crediti da case auto in grado di rispettare le norme. Cioè da Tesla. Nel bilancio del terzo trimestre, nell’utile (fin qui raro) di $22 milioni della casa di Palo Alto sono stati una voce decisiva i crediti per l’efficienza dei consumi rivenduti a case concorrenti.

I cattivi rapporti del prossimo presidente con la Silicon Valley potrebbero ridimensionare le ambizioni, anche nell’auto, di molte startup

Quello che potrebbe succedere all’azienda di Elon Musk sembra parte di un più ampio fenomeno di rigetto delle grandi aziende di successo della Silicon Valley, di cui Tesla è certo uno dei campioni. Anche se il magnate dei casinò e dei campi da golf ha già sfoggiato bastone (minacce a chi non produce in America) e carota (tagli alle tasse societarie) con le startup californiane, la costa del Pacifico è ancora in stato di choc per la vittoria di Trump.

Come riassumeva a caldo un articolo sul New York Times, improvvisamente è venuta a galla la comprensione che ciò che era un modello ammirato e ritenuto un motore di crescita di un secolo digitale è un bersaglio. Un bersaglio facile. Scrive qui Farhad Manjoo: “non è chiaro che la maggior parte degli americani veda il progresso tecnologico come il bene indiscusso quale è considerato nella Silicon Valley. La tecnologia si è spinta così in profondità nelle vite delle persone, cambiando il modo in cui lavorano e vanno a scuola e allevano i figli, che potrebbe sollevare più paure che speranze. Un nuovo smartphone è bello, ma forse non lo è se significa che il tuo lavoro di autista di camion sarà sostituito da un TIR che si guida da solo“.

Le Apple, le Google che già stavano facendo marcia indietro sull’auto, passando dall’intenzione di sfidare Detroit al proporre meno ambiziosi ma comunque complessi sistemi di guida autonoma avanzati, insomma per qualche tempo potrebbero avere pesci più grossi da friggere. Inoltre l’impostazione spiccatamente pro-business di Trump potrebbe rallentare la diffusione delle linee guida federali per le auto autonome, rese note da poche settimane. Più poteri potrebbero passare agli stati locali. O alle lobby delle case auto (e della… Silicon Valley).

Né la marcia indietro sui consumi auto, né una eventuale confusione nella regolamentazione dello sviluppo della guida autonoma sembrano un vantaggio per la crescita delle auto elettriche e dell’autonomia, in America. Il che non vuol dire che altrove ci debba essere la stessa reazione. Anzi, a fare maggiori progressi nell’auto elettrica ed autonoma potrebbero alla fine essere i concorrenti di Detroit e della Silicon Valley.

Anzitutto perché nell’auto il mercato più grande si chiama Asia, che conta per circa il 45% delle nuove immatricolazioni globali. Nella sola Cina lo scorso anno si sono venduti 21,1 milioni di auto. In Germania, il più grande mercato europeo, 3,2 milioni. Il gruppo Volkswagen da solo ha venduto in Cina quasi altrettante auto di quante ne vendono tutte le case insieme in Germania: 2,85 milioni. Il governo di Pechino continua a pretendere una quota sempre crescente di auto elettriche, la cui diffusione è inesorabile.

Una marcia indietro americana nell’auto elettrica lascerà ancora più spazio alla rapida crescita della concorrenza asiatica

La crescita del settore agevola sempre di più il rafforzamento dei marchi locali, che avevano difficoltà a misurarsi con i gruppi globali quando si trattava di tecnologie tradizionali. Coi veicoli elettrici invece, le case si confrontano su un terreno che rimette tutto in discussione. E questo rende ad esempio possibile ad un marchio cinese come BYD, nota principalmente per i suoi autobus, diventare il terzo marchio globale per vendite di auto elettriche dietro solo a Renault-Nissan e Tesla e davanti a Mitsubishi. BYD, si noti, vende solo in Asia e piccoli numeri in Sudamerica. In un caso del genere, la minaccia di Trump di imporre dazi fino al 45% sui prodotti cinesi non avrebbe alcun effetto, come è evidente.

Il quarantacinquesimo presidente americano sembra quindi destinato ad influire poco sul futuro dell’auto elettrica a livello globale, in sicura espansione nel mercato più grande. E con ogni probabilità anche in Europa, dove ormai case tedesche e francesi paiono averne sposato la causa senza riserve. Dall’altra parte dell’Atlantico invece, proprio mentre Tesla guadagna soldi e General Motors sta per lanciare una Bolt che costa il giusto ed ha una buona autonomia, dallo scorso martedì quel futuro pare in bilico. Definitivamente?

A decidere il destino dell’auto elettrica americana, e delle energie rinnovabili, più che la politica sarà l’economia

Il governo non ha potere sui gusti dei cittadini. Ne ha invece sugli incentivi. Ma, anche nel caso dell’auto elettrica, occorre tenere presente l’arco di vita entro cui si inseriscono gli incentivi. Ha scritto Tom Randall in un editoriale per l’agenzia Bloomberg, “gli incentivi sono progettati per rendere accessibile all’inizio una tecnologia superiore, ma una volta che questa tecnologia prende il volo, subentrano le economie di scala“.

Senza gli sgravi fiscali ($7.500) Tesla Motors avrebbe forse avuto vita breve. Ma a gioco lungo imporsi come marchio premium non è qualcosa che si ottiene con gli sgravi fiscali: occorrono prodotto e marketing. Ed anche in Tesla sapevano bene che gli incentivi fin dall’inizio erano studiati per sparire da soli. Non sono più previsti quando una casa raggiunge i 200.000 veicoli venduti coast-to-coast. A quel numero al più tardi Tesla arriverà nel 2018. Così se la fine degli incentivi sarà un ostacolo, non sarà la tomba della casa californiana.

C’è anche un altro interrogativo che rimane sospeso sull’auto elettrica americana del futuro. Saranno ancora a zero emissioni le Bolt o le Tesla, se con la presidenza Trump il carbone tornerà protagonista? Verrebbe da rispondere di no. Ma la risposta non sembra essere in mano alla politica ma piuttosto all’economia. Anche se la EPA sotto la nuova gestione dovesse ridurre ai minimi termini il Clean Power Act, la legge che obbliga gli stati a tagliare le emissioni, il carbone si troverebbe comunque in posizione di svantaggio rispetto al gas naturale, la cui estrazione sembra destinata ad aumentare. E l’eolico (ma non quello offshore) è già competitivo col gas naturale.

In altre parole, auto a batteria… a carbone sembrano poco probabili. In aggiunta, gli incentivi fiscali per le energie rinnovabili per cinque anni approvati a Washington a dicembre sono passati con supporto bipartisan. E tra gli stati in cui già la fanno da padrone eolico e solare prevalgono quelli che hanno votato per Trump. Ha scritto Chris Bryant sul blog Gadflyci si aspetterebbe che la capacità delle rinnovabili cresca oltre il 4% l’anno fino al 204o, secondo la U.S. Energy Information Administration, il che significa che avrebbe una quota del 23% della generazione“. Anche senza Clean Power Act. Le immagini valgono più delle parole.

energia carbone solare eolico
Anche senza il Clean Power Plan le rinnovabili continueranno a guadagnare terreno (Fonte: Bloomberg Gadfly)

Credito foto di apertura: Tesla Motors media website