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Il prossimo crac di borsa verrà dai prestiti auto?

Stiamo parlando di prestiti sub-prime, ovvero prestiti la cui qualità mette a rischio per chi li emette la piena riscossione. Se vi sembra familiare è perché un fattore scatenante (non certo l’unico) del crac che ha avuto l’apice col crollo della Lehman Bros. è stata la bolla dei mutui sub-prime concessi per acquisto di case a chi aveva una “pagella” di credito meno o molto meno che sufficiente. Dallo scorso autunno gli organi di stampa americani pubblicano report ed articoli che riportano timori sulla crescente facilità di emettere prestiti per l’acquisto di auto.

A novembre il Wall Street Journal pubblicava un post di Josh Zumbrun in cui si leggeva tra l’altro: “nei sei mesi fino allo scorso settembre, oltre $110 miliardi di prestiti auto sono stati concessi a richiedenti con punteggio di credito al di sotto del 660, la soglia inferiore per avere un punteggio di credito considerato buono. Di quella somma, circa $70 miliardi sono andati a richiedenti con punteggi di credito al di sotto di 620, punteggio considerato cattivo“.

La politica del credito facile aggiunge spinta ad un mercato delle vendite auto già vivace. Solo che a questa facilità di credito, negli ultimi tempi, si sta aggiungendo la voglia di crescita di uno dei pezzi da novanta del ride sharing: Uber. In una America in cui i giovani sono sempre meno interessati a possedere un’automobile, Uber va controcorrente ed ha bisogno di sempre più autisti: 100.000 quest’anno. Non tutti sono candidati con una pagella positiva, quando si tratta di debito. Ma Uber se vuole raggiungere il proprio obiettivo non sembra poter guardare tanto per il sottile.

Ecco perché ha creato, come raccontava un interessante articolo di Bloomberg, una azienda controllata, Xchange Leasing, che fin dalla nascita ha subito iniziato a rivolgersi a potenziali autisti anche con una travagliata storia di debito. Per alcuni di loro, se vogliono acquistare un’auto mediante un prestito o un leasing, Xchange è l’opzione giusta perché l’unica. Ad Xchange non manca il capitale: dispone di una linea di credito da $1 miliardo messa insieme da un pool di istituzioni finanziarie capitanate dalla notissima banca Goldman Sachs.

Chi riceve un prestito effettua un deposito di importo contenuto ($250) ed inizia a effettuare pagamenti settimanali (di solito tra i $100 ed i $130) per i tre anni di durata del contratto, coi pagamenti detratti dai guadagni provenienti dal trasporto di passeggeri che usano l’app Uber. Se dopo tre anni si vuole tenere l’auto bisogna pagare il valore residuo. E’ costoso? In effetti lo è. Mark Williams, della Boston University, ha detto che “le condizioni contrattuali, nel modo in cui sono proposte, sono predatorie e molto spinte verso il trarre profitti dagli automobilisti, piuttosto che verso il facilitare una crescita del numero dei guidatori“.

Ma chi sottoscrive un contratto di leasing auto normalmente sembra saperlo bene. Il fatto è che per chi ha una brutta pagella di credito la mancanza di alternative per avere un prestito auto rende comunque Xchange una soluzione. Anche se, come indica nel pezzo di Bloomberg una giovane di Los Angeles che ha chiesto il leasing per una Honda Civic, alla fine pagherà $25.210 quello che in contanti potrebbe avere per $18.142 o per poco più se avesse un punteggio di credito brillante.

Nel 2015 i prestiti auto americani ammontavano a $1.100 miliardi: anche se i leasing sub-prime sono in crescita come importo e come nel caso di Uber attraggono nuova società interessate a prendere parte alle emissioni, è molto difficile pensare che possano creare una bolla come quella dei mutui. Notava qui su Fortune Chris Matthews: “la durata dei prestiti auto è molto più breve dei mutui, rendendoli più stabili e più facile per gli investitori valutarli“.

Inoltre, ricordava qui Barry Ritholz: “in alcuni stati ci possono volere tre anni (contro la media italiana di sette n.d.a.) perché un esproprio sia portato a termine. Ma se un prestito auto non va a buon fine la società che si occupa dei sequestri può mandare un carro attrezzi entro tre ore“.  A maggior ragione in un mondo in cui ormai per questioni di sicurezza ed anti-terrorismo aumentano esponenzialmente telecamere e sistemi di lettura delle targhe.

Ma se il rischio che la sharing economy vada tenuta d’occhio come possibile detonatore della prossima bolla speculativa sembra limitato, la strategia di Uber che pass attraverso l’attività di Xchange pare una sterzata quasi a 180° dal percorso dell’economia collaborativa come viene comunemente inteso. Al di là delle passate ma sempre attuali polemiche e delle perplessità sulle relazioni tra società e collaboratori, una costante di Uber e delle rivali Lyft, Didi & C. era di trasformare un bene sotto-utilizzato (l’auto in questo caso) in capitale produttivo. La forza innovativa è stata nel processo che la piattaforma, mediante l’app, gestisce, non certo nel bene.

In questo post sul sito del Sole 24 Ore Veronica Tentori, coinvolta in prima persona nella proposta di legge italiana sulla disciplina delle piattaforme digitali che si muovo nell’economia collaborativa, sottolineava come la galoppante espansione della sharing economy abbia reso bisognosa di chiarezza la posizione di chi, aderendo ad una piattaforma digitale, svolga una attività occasionale per integrare il proprio reddito. Si tratta di quello che accade nella maggior parte dei casi in Italia ed anche la posizione della maggior parte degli automobilisti americani che hanno sottoscritto leasing con Xchange sentiti da Bloomberg.

In questo senso anche una senatrice statunitense certo non pro-business come Elisabeth Warren sottolineava che la stessa “gig economy è diventata un riempitivo per alcuni lavoratori che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese in un mercato del lavoro debole“.  Ma la proposta di legge italiana, e la concezione finora prevalente della sharing economy era che si trattasse di attività in cui chi lavora, chi guida, lo faccia con un mezzo di sua proprietà. Uber, che ormai è entrata nell’area dello shadow banking con Xchange, si fa invece chiaramente finanziatore dei propri autisti.

La linea di confine diventa più complicata. Al contrario di una società finanziaria normale infatti, Uber e sussidiarie non penalizzano il chilometraggio nel contratto di leasing (il che sarebbe per loro controproducente) ma non mettono lucchetti e catenacci a chi vuole uscire dal vincolo contrattuale. Il carro attrezzi non arriva subito a ritirare il veicolo. Anzi, nell’articolo di Bloomberg ci viene spiegato che la vettura di chi ha rinunciato al lavoro di autista di Uber è rimasta ferma a lungo in un parcheggio, come se l’azienda americana sperasse che il contraente potesse avere un ripensamento rimettendosi ad usarla e a lavorare.

Il rapporto tra Uber e i suoi guidatori, prima mediato solo dalla piattaforma, almeno dove Xchange opera sembra diventare più complicato. Di sicuro più incerto. Una delle incertezze del rapporto tra azienda ed autisti fin qui era la definizione del rapporto. Dipendente? Contractor? Franchisee? Il dipendente normalmente nel periodo in cui lavora ha una supervisione per prestare il suo servizio e per quello è remunerato. La supervisione finora era in capo alla app ed al rating prodotto dai servizi, indebolendo la posizione di chi vede gli autisti di Uber come dipendenti anomali. La remunerazione peraltro è analoga a quella di lavori che esistono da sempre, come il cottimo.

In America o nella maggior parte dei casi italiani, se Xchange dovesse offrire qui i suoi leasing, viene da dire che un acquisto di un prestito basato sul prestito da parte di un autista che lavori part-time renderebbe ancora meno solida l’obiezione sulla posizione dipendente degli autisti. In questo caso compro un bene che non potrei permettermi, e al momento di rimborsare il prestito quello che faccio è scambiare una prestazione di servizio contro una quota di rimborso. La posizione di un autista Uber, così parrebbe, diventa ancora più indipendente. Ma, e questo conferma ancora una volta quanto la fluidità della nuova economia sia inafferrabile, questo sembra poter valere solo per chi ha già un lavoro e usa Uber per integrare il reddito.

Il fatto è che in alcuni casi Uber è già diventato il solo canale affidabile e percorribile per entrare nel mondo del lavoro. Anne-Sylvaine Chassigne ha scritto poche settimane fa questa interessantissima inchiesta sul Financial Times in cui spiegava come la piattaforma americana sia diventata in pochi mesi un raro, rarissimo strumento di lotta alla disoccupazione per i giovani delle periferie francesi. I figli di immigrati africani o caraibici, dove un terzo di loro sono disoccupati, sempre più frequentemente si sono rivolti ad Uber e rivali per un lavoro che li tiene impegnati anche sei giorni alla settimana. L’81% dei guidatori francesi ha la guida per Uber come unica attività: se un giorno Xchange dovesse proporre anche a questo tipo di autisti a tempo pieno i propri leasing, la relazione di dipendenza azienda-lavoratore parrebbe proporzionalmente stringersi piuttosto che indebolirsi. Un risultato che sembra l’esatto opposto di quello che Uber ed Xchange paiono ripromettersi.