OPINIONI

Ora sulle quote di auto elettriche è la politica tedesca a condurre il gioco

Dopo giornate dominate dalle discussioni sull’arrivo di quote per le auto elettriche, Angela Merkel le respinge ma sferza i suoi costruttori

Non c’è in Europa paese che si tenga stretta la sua industria dell’automobile quanto la Germania. Questa settimana di agosto è la dimostrazione che se questo può essere un vantaggio innegabile per le case auto, allo stesso tempo comporta anche uno scrutinio costante da parte di opinione pubblica e classe politica.

Qui ci interessa soprattutto la pressione crescente che si sta esercitando sul settore auto tedesco nel suo complesso, perché faccia tutto il possibile per restare quel leader e faro che non è più dopo i clamorosi auto-gol iniziati col dieselgate e via via peggiorati fino al sospetto di un cartello.

La settimana appena conclusa, per chi non avesse presente la cronologia degli eventi, era iniziata lunedì con la Commissione Europea costretta a precisare di non avere nel mirino l’introduzione vincolante di quote di auto elettriche sul mercato continentale.

Bruxelles, pur confermando il proprio orientamento favorevole allo sviluppo di tecnologie adatte a contenere le emissioni del traffico, smentiva quindi un articolo del quotidiano finanziario Handelsblatt pubblicato lunedì mattina.

Il quotidiano, citando fonti UE, sosteneva che il provvedimento sarebbe stato imposto in modo graduale a partire dal 2025, seguendo l’esempio di paesi come la Cina, che per il 2018 hanno già stabilito una quota minima di elettriche ed ibride vendute: 8% e poi a crescere fino al 12% nel 2020.

Il succo era che, malgrado gruppi tedeschi come BMW, Daimler e Volkswagen abbiano già autonomamente adottato obiettivi di quote di produzione di veicoli elettrici ed ibridi compresi tra il 15 ed il 25% entro il 2030, dei piani dei giganti dell’automobile ci si può fidare solo fino ad un certo punto.

Perché la fiducia nei gruppi dell’auto quasi ogni giorno viene scossa da altri ulteriori dettagli di un quadro complessivo sconfortante. Un quadro così negativo che ha fatto commentare ad esperti ed addetti ai lavori che questo settore auto è ben visto quanto il settore bancario e finanziario dopo l’inizio della Grande Recessione.

Sergio Marchionne con la sua solita brutale franchezza aveva commentato, lo scorso luglio: “Per un periodo di tempo avevo pensato che con le banche si fosse toccato il fondo, ma credo che ora le abbiamo sorpassate in termini di avversione“.

Dal dieselgate ai sospetti su un cartello comune, ora lo stillicidio di notizie ha reso il settore dell’industria automobilistica impopolare quanto la finanza

Che oggi questa valutazione non sia un’iperbole, specialmente in Germania, lo conferma il fatto che l’ondata più recente di scandali mette insieme politica ed industria dell’auto. In Bassa Sassonia, lo stato tedesco che ospita colossi come Volkswagen e Continental, la politica locale è sempre stata vicina al settore.

Nel caso del gruppo di Wolfsburg anche con una quota di proprietà del 20% che specie di questi tempi sembra essere un fardello che un asset. Il premier dello stato federale Stefan Weil è stato accusato dal quotidiano Bild di essere più vicino all’industria che al suo elettorato, comportandosi da uomo di pubbliche relazioni piuttosto che da rappresentante delle istituzioni.

Weil finora guidava una maggioranza di socialdemocratici e verdi; ma una deputata verde lo ha scaricato mettendolo di fronte alla necessità di andare ad elezioni anticipate, con esito ora assai rischioso per l’ex-maggioranza. Da un politico con il curriculum di Weil ci si aspetterebbe che non sia disposto a supportare le quote di auto elettriche, sgradite ai gruppi dell’auto.

Ma ormai, come suggeriva Marchionne, essere visti come sodali dei gruppi dell’auto è diventato una ricetta per una trombatura certa in cabina elettorale. Tanto che all’interno del principale partito di sinistra tedesco (la SPD) quale che sia la posizione di Weil il suo “capo” e candidato alla Cancelleria Martin Schulz ha già ufficialmente appoggiato le quote per le auto elettriche ed ibride.

Le quote, sottolineano gli argomenti a sostegno, agevolerebbero la transizione verso auto a zero emissioni locali, mentre ci sono ancora molti clienti dubbiosi: sui costi (nonostante la presenza di incentivi all’acquisto), sull’autonomia, sulle infrastrutture.

In una fase del settore auto che ricorda per certi versi il fenomeno del ship sailing effect (nonostante lo si dia per morto i motori convenzionali possono ancora diventare più efficienti degli attuali, come ha recentemente sostenuto Mazda), le quote potrebbero servire a scongiurare il timore di fuochi di paglia, come nell’auto è successo con le infatuazioni su alimentazione a metano e gas naturale.

Sul quotidiano Handelsblatt il collega Lukas Bay ha replicato che dovrebbero essere i livelli di tecnologia raggiunti da un settore a convincere i clienti, non i politici: “Quando si tratta di auto elettriche, ci sono solo due possibili scenari: o le auto che entreranno sul mercato nei prossimi anni saranno buone abbastanza da farle acquistare al pubblico, o non saranno pronte, nel qual caso una quota non otterrebbe nulla“.

Il Cancelliere Angela Merkel, che pure si era fissata un obiettivo di un milione di auto elettriche sulle strade tedesche entro il 2020 (ma oggi sono solo circa 35.000 quelle native elettriche) venerdì ha fatto sapere di non volere quote.

Ma ieri a Dortmund, al primo raduno della CDU di una campagna elettorale che ben pochi ritengono concludersi con un risultato diverso dal suo quarto successo consecutivo, ha ribadito che con il futuro dell’auto tedesca la politica continuerà ad avere a che fare quanto la tecnologia.

Dalla Merkel ai… verdi, in Germania c’è disponibilità a non demonizzare il diesel come risorsa transitoria: ma le case devono innovare sempre più in fretta

Perché, nel rivolgersi ai dirigenti di un settore che è il primo nazionale per export e dà lavoro direttamente ad 800.000 persone non si è fatta problemi a pungolarne la capacità di riconquistarsi quella fiducia di cui hanno fatto strame, e che solo loro possono riconquistarsi.

Come dire a chi sta nei board, profumatamente pagato, di non credere di cavarsela con la prima recente misura che porterà agli aggiornamenti dei software di 5,3 milioni di auto diesel per contenere le emissioni.

Ribadendo quello che più volte ha già sostenuto, la prima soluzione per riconquistarsi la fiducia è innovare, e innovare rapidamente sia in tecnologia che in infrastruttura, suggerendo che anche che dove il settore privato può non essere in grado di fare da solo debba essere il governo ad intervenire per metterle in condizione di andare avanti.

Un pungolo che, vista l’abituale determinazione del Cancelliere nell’arrivare ai suoi obiettivi, non lascia spazio ad equivoci quando rifiuta di demonizzare il diesel. L’agenzia Reuters l’ha citata con queste parole: “Abbiamo bisogno di auto diesel, a benzina, ma abbiamo anche bisogno di una transizione più rapida alle nuove tecnologie“.

Anche un verde come il premier dello stato del Baden-Württemberg Winfried Kretschmann si è appena fatto avanti per ricordare la potenziale utilità dei diesel in una fase di transizione come l’attuale. Sottolineando il loro impatto meno sfavorevole sul cambiamento climatico rispetto al tema dei livelli di inquinamento. Quest’ultimo peraltro è ora più dibattuto rispetto all’altro problema, specie in regioni come la sua, “casa” di Daimler, Porsche e Bosch.

Ma il pragmatismo tedesco non deve fare pensare che la politica e l’opinione pubblica sia disposta a sorvolare ancora indefinitamente: l’incapacità da parte del settore automobilistico di ripristinare una reputazione degna di questo nome con rapidità e con efficacia sarebbe una scorciatoia verso l’estinzione.

I top manager di Monaco, Stoccarda e Wolfsburg forse non dovrebbero scordare che il pragmatismo tedesco non ha ritenuto appropriato salvare le sue decotte industrie dell’elettronica (da Grundig a Telefunken) quando si sono dimostrate incapaci di innovare e reggere la concorrenza. In quel caso che a comandare il gioco fosse la politica tedesca è stato un vantaggio: in Italia sarebbe sicuramente successo il contrario, e anche su questo c’è da riflettere…


Credito foto di apertura: © Deustcher Bundestag/Marc-Steffen Unger