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La sharing economy non è finita mercoledì a New York: la sua finzione sì

Il consiglio comunale di New York blocca le licenze ai taxi privati di Uber, Lyft & C.: una moratoria di un anno per far convivere meglio il ride-hailing e la città

Mercoledì scorso New York è diventata la prima metropoli americana a decidere di sospendere il rilascio di licenze agli operatori dei taxi privati come Uber, Lyft ed altri.

Il consiglio comunale ha passato il provvedimento a grande maggioranza, al contrario di quanto era avvenuto nel 2015 quando il sindaco Bill De Blasio aveva tentato di introdurre un analogo tetto ma era stato costretto a desistere dopo una campagna di clienti di Uber & C. inferociti per l’eventualità di perdere una opzione di trasporto per loro essenziale.

Ma dopo tre anni da quel tentativo la moratoria, che va di pari passo con l’introduzione di nuove regole per le paghe degli autisti, arriva in uno scenario cambiato, mentre i servizi di ride-hailing sono sempre più spesso ritenuti responsabili di un impatto critico sulle città che non ha precedenti.

Bruce Schaller, esperto e consulente di trasporti, ha pubblicato alcuni studi (contestati da Uber e Lyft) che sottolineano come il boom del ride-hailing non potesse andare avanti per sempre ad intasare le strade.

Ha commentato il provvedimento con cui New York blocca le licenze ai taxi privati dicendo che era solo una questione di tempo: dai 63.000 del 2015 sono arrivati oggi a superare i 100.000.

Ieri in una colonna sul New York Times Ginia Bellafante suggeriva che non si tratta solo di una moratoria o di prendere tempo ma, probabilmente, dell’inizio del ridimensionamento di certe promesse che sono servite a dare spin al fenomeno della sharing economy ma che non corrispondono più, e forse nemmeno all’inizio corrispondevano, alla realtà.

Dall’inizio infatti Uber & C. hanno sostenuto di rivolgersi ad autisti facendosi forza della premessa che diventare collaboratori avrebbe consentito loro di continuare a fare le loro attività principali, e quindi che accompagnare studenti che avevano bevuto oppure manager all’aeroporto non sarebbe stato un primo gradino verso un impiego convenzionale.

Solo che le cifre tendono a indicare che, almeno a New York City, le cose stiano andando diversamente: uno studio di due economisti, James A. Parrott e Michael Reich, mostra che nel più grande mercato americano di Uber sono quasi due terzi gli autisti che lavorano a tempo pieno in questa veste.

Inoltre circa l’80% delle auto che essi acquistano sono a tutti gli effetti uno strumento di lavoro, uno strumento per il quale si sono indebitati (sì, anche coi famigerati prestiti sub-prime) e dai quali riescono ad ottenere magri utili.

Non basta: 9 su 10 sono arrivati in America da immigrati e circa il 54% è il responsabile per oltre la metà del reddito del nucleo familiare. E tuttavia, pur con questi ostacoli, quella di autista dei servizi di ride-hailing è una attività di lavoro che cresce dieci volte nella metropoli americana rispetto all’impiego degli operai o a quello totale.

La gig economy o sharing economy che dir si voglia a fare da ciambella di salvataggio si rivela sempre più inefficiente. Ma sono invece sempre di più quelli che a quel salvagente inefficiente si attaccano o sono costretti ad attaccarsi.

Come scrive oggi, ancora sul NYT,Emily Badger a New York “i politici stanno reagendo al sospetto che le società di ride-hailing abbiano gonfiato a dismisura il numero di auto sulle strade per minimizzare i tempi di attesa dei passeggeri, a spesa dei redditi di chi guida e delle strade pubbliche“.

Il modello di business di Uber, specie ai tempi del precedente amministratore delegato Travis Kalanick, era ricoprire le strade di auto delle città raggiunte con più auto e più autisti possibile. Una cosa che in una città come San Francisco che di taxi ne aveva davvero troppo pochi ha avuto inizialmente un effetto positivo dirompente, ma altrove ha presto creato problemi.

Ci sono pochi dubbi che quella fosse una politica facile da seguire per Kalanick & C.: tra le varie offerte delle aziende della sharing economy, il vantaggio nel caso dei taxi privati rispetto a, diciamo il noleggio delle bici o delle bici elettriche, è sempre stato scaricare il costo del mezzo e del suo deprezzamento (due incubi ricorrenti per i protagonisti del noleggio convenzionale come Hertz e rivali) tutto sugli autisti, per qualche periodo anche tentando di finanziarli.

Uber e le sue rivali da sempre mettono a bilancio sussidi e premi periodici per gli autisti, per tenerli sempre in equilibrio tra il rischio di uscire dal settore e la voglia di guadagnare abbastanza per uscire dai debiti. Un gioco nel quale all’apparenza gli autisti non sembrano vincere mai.

E le difficoltà sempre maggiori per chi vive di ride-hailing spiegano perché il consiglio comunale di New York abbia alla fine deciso di tentare di mitigarne i problemi fissando una paga minima di $17,22 spese escluse, un livello che aumenterebbe i redditi dell’autista medio di circa il 22,5%.

Come ricordava però la Bellafante, anche con questa misura la percorribilità a lungo termine della sharing economy quando si tratta di taxi privati resta un punto interrogativo, inconciliabile col costo della vita di una metropoli.

Per un autista che abiti pur in un quartiere modesto o ultra-modesto di New York, indispensabile per raggiungere la clientela ogni giorno, gli affitti medi oscillano tra $1.500 e $1.600 al mese; il che fa pensare alla necessità di guadagnare almeno tra i $54.000 ed i $58.000 l’anno: anche col salario minimo ne saremmo comunque ancora lontani.

Così in pratica New York si trova a dover rispondere alla domanda di quale sia il numero giusto di taxi, privati e gialli, proprio nel momento peggiore, col rischio di dover complicare la vita ulteriormente a decine di vittime del lato più avventato della sharing economy, che se non ha tolto dalla personale recessione gli autisti di Uber, Lyft & C. ha invece colpito anche gli autisti dei vecchi taxi gialli.

La svalutazione delle licenze ha devastato molte economie di famiglia, mentre almeno sei suicidi si sono contati negli ultimi mesi tra tassisti, quasi tutti di recente immigrazione, incapaci di far fronte a contratti coi quali avevano rilevato la gestione delle vetture di piazza.


Credito foto: Maryus Bio/Unsplash