La sicurezza dell’auto elettrica in copertina nel rapporto AGCS
Il quadro della sicurezza dei trasporti navali migliora, ma per gli esperti AGCS vedere salire a bordo migliaia di auto elettriche è una criticità: per molti motivi le case auto potrebbero accontentarli, col loro reshoring
Il settore marittimo trasporta il 90% delle merci, pertanto la sicurezza della sua flotta è essenziale. Se ne gli Anni ’90 si perdevano oltre 200 navi l’anno, l’edizione 2022 del The Safety and Shipping Review dovuto ad AGCS (Allianz Global Corporate & Specialty) sottolinea che nel 2021 il numero è ulteriormente sceso come nel quadriennio precedente, a 54 perdite totali, rispetto alle 65 dell’anno precedente.
“Negli ultimi anni il settore marittimo ha dimostrato un’enorme resilienza attraverso i mari in tempesta, come dimostra il boom che vediamo oggi in diverse parti del settore”, afferma il capitano Rahul Khanna, Global Head of Marine Risk Consulting presso AGCS. “Le perdite totali sono ai minimi storici: da 50 a 75 all’anno negli ultimi quattro anni rispetto a oltre 200 all’anno negli Anni ’90”.
Ma nel resoconto degli esperti di sicurezza della AGCS entrano fattori che prima non erano stati considerati. Il report sottolinea come durante l’ultimo anno, gli incendi a bordo della nave porta-auto Ro-Ro (roll-on roll-off) Felicity Ace e quello della portacontainer X-Press Pearl abbiano creato particolari preoccupazioni dopo gli affondamenti.
Gli incendi dei carichi sono insomma sempre una preoccupazione prioritaria e due problemi nuovi, la presenza crescente di auto elettriche con le loro batterie e navi sempre più grandi che alcuni porti non sono in grado di gestire in fasi di difficoltà.
Negli ultimi cinque anni sono stati segnalati oltre 70 incendi solo su navi portacontainer, secondo il rapporto. Gli incendi spesso iniziano nei container, il che può essere il risultato di una mancata o errata dichiarazione di merci pericolose, come sostanze chimiche e batterie: circa il 5% dei container spediti può oggi essere costituito da merci pericolose non dichiarate.
Il fatto che gli incendi avvengano su navi di dimensioni sempre più grandi fanno sì che possano diffondersi rapidamente ed essere difficili da controllare, spesso con conseguente abbandono della nave da parte dell’equipaggio, il che può aumentare significativamente il costo finale di un incidente.
La Felicity Ace è stata un campanello di allarme con il suo incendio per le case auto, che hanno in programma di produrre sempre crescenti quote di auto elettriche e quindi, in teoria, di spostarle anche su lunghe distanze. Tra le altre cause gli incendi possono avviarsi nelle stive, causati da malfunzionamenti o cortocircuiti elettrici nei veicoli: i ponti aperti resi necessari dal facilitare la logistica possono consentire loro di diffondersi rapidamente.
Il numero crescente di veicoli elettrici (EV) trasportati via mare comporta ulteriori sfide, dato che i sistemi di contromisura esistenti potrebbero non rispondere più efficacemente in caso di incendio di veicoli elettrici.
Da tempo ormai più case auto lavorano coi reparti dei vigili del fuoco sulla preparazione della forza all’eventualità di incendi di auto elettriche, ma un conto è il già complesso spegnimento di una batteria all’aperto e potenzialmente molto più complicato contenere un incendio in mare aperto.
Riguardo alla nave persa con centinaia di veicoli elettrici Audi, Bentley, Porsche e Volkswagen, non sapremo le cause; la presenza di batterie possibile preda delle fiamme può aver reso più complicate le operazioni di spegnimento, fino alla perdita totale. Le perdite possono essere costose, sia dato il valore del carico sia per l’eventuale costo della rimozione dei relitti e della mitigazione dell’inquinamento.
Quando le navi di grandi dimensioni mettono in crisi la sicurezza con incendi o altre emergenze, anche la reazione e la ricerca di un porto di rifugio possono essere difficili, sottolinea l’esperienza recente secondo gli esperti AGCS. Sono necessarie attrezzature di salvataggio specializzate, rimorchiatori, gru, chiatte e infrastrutture portuali, che aggiungono tempo e costi a una risposta e non in tutte le aree sono disponibili.
L’X-Press Pearl è affondata dopo che le è stato rifiutato rifugio da due porti di seguito per un incendio, è uno dei tanti incidenti in cui le navi portacontainer hanno avuto difficoltà a trovare un rifugio sicuro. Nel frattempo, l’operazione di salvataggio per la compagnia di auto Golden Ray , che si è capovolta negli Stati Uniti nel 2019, è durata quasi due anni ed è costata oltre 800 milioni di dollari.
“Troppo spesso, quello che dovrebbe essere un incidente gestibile su una grande nave può finire con una perdita totale. Il salvataggio è una preoccupazione crescente. Le preoccupazioni ambientali stanno contribuendo all’aumento dei costi di salvataggio e rimozione dei relitti poiché gli armatori e gli assicuratori dovrebbero fare il possibile per proteggere l’ambiente e le economie locali”, afferma Khanna.
“In precedenza, un relitto avrebbe potuto essere lasciato in situ se non rappresentava un pericolo per la navigazione. Ora, le autorità vogliono la rimozione dei relitti e il ripristino dell’ambiente marino, indipendentemente dai costi”.
Per ora alle case auto non si prospetta l’onerosa necessità di recuperare veicoli elettrici dal fondo del mare, ma la probabile richiesta di coperture assicurative molto più costose per spostare via mare migliaia di auto con grandi batterie diventerà sicuramente un fattore. Almeno per alcune case auto. E anche un possibile incentivo a limitare l’export se non in casi indispensabili.
Nell’auto convenzionale ormai la globalizzazione era data per scontata, con navi in movimento sulle acque del pianeta in modo indifferente all’effetto che questo ha avuto non tanto sui costi, spesso limitati, ma sull’ambiente per le emissioni necessarie a spostarle.
Nell’auto elettrica la richiesta di misurare le emissioni sul ciclo di vita completo nel confronto con l’auto convenzionale, è uno dei molti fattori che da tempo stanno contribuendo a spingere le case auto a regionalizzare la produzione.
Le Volkswagen ID4, ad esempio, alcune delle quali perse in fondo al mare proprio sulla Felicity Ace, entro fine anno per l’America saranno prodotte in Tennessee, per l’Europa a Zwickau ed Emden e per la Cina ad Anting e Foshan.
Il tutto distribuito all’interno di una mappa delle fabbriche della piattaforma MEB che è stata da tempo regionalizzata. Insomma le ID4 non avranno presto più alcuna ragione di viaggiare via nave, a meno che i loro proprietari non intendano prendere un traghetto per le vacanze.
Non solo Volkswagen, ma anche altre case tendono ora a concentrare la produzione vicino alla clientela, non appena i volumi lo giustificano. Pertanto lo stesso farà Ford con i Transit elettrici, o altri produttori che stanno mettendo in campo modelli globali.
Se le compagnie di navigazione e gli assicuratori chiederanno, come è prevedibile, tariffe più elevate per spostare veicoli elettrici, le case auto avranno ancora più incentivi a regionalizzare la produzione. Questo non creerà problemi per alcuni gruppi auto, ad esempio i giapponesi, che hanno una base distribuita in modo abbastanza uniforme.
E potrebbe presto diventare un problema del passato anche per Tesla: se nell’ultimo biennio la crescita delle consegne dei modelli di Elon Musk è stata dovuta essenzialmente alla capacità di export di Shanghai verso l’Europa, la decisione quanto mai lungimirante di aprire in Germania e in Texas dovrebbe consentire a Tesla di non risentire di una prevedibile impennata dei costi di trasporto marittimo a lungo raggio.
Potrebbe essere invece un problema in più per le case cinesi che hanno ambizioni di export (come NIO o Xpeng) oppure per quei marchi globali che intendono costruire in Cina per consegnare in mercati lontani. In altri termini, costi maggiori di assicurazione e delle società di shipping potrebbero influire sui prezzi della gamma di case come Smart o Polestar, che sia pure in segmenti diversi hanno in comune pubblico occidentale ma base produttiva cinese per un prodotto il cui design è invece europeo.
Non ha necessariamente a che fare con gli incendi su grandi navi di cui si è occupato il rapporto AGCS sulla sicurezza, ma si inserisce in una tendenza a dire addio alla globalizzazione vecchia maniera anche l’attuale parallela frenata della distribuzione delle supply chain.
Incentivi a spostare i punti della catena della fornitura perché percorrano distanze più brevi ed evitino situazioni rischiose toccano ormai anche protagonisti insospettati: ad esempio fornitori delle Tesla made in Shanghai. Proprio oggi una corrispondenza da Taiwan di Bloomberg segnalava che è quello che considera parte della base dei fornitori di Elon Musk.
Il 12 maggio il presidente di Hon Hai Precision Industries (meglio nota come Foxconn) Young Liu segnalava che dalla crisi sanitaria la localizzazione della supply chain è una tendenza in crescita. Proprio Foxconn, Primax Electronics e Delta Electronics sono tra i fornitori Tesla che non nascondono di voler spostare almeno parte della capacità fuori dalla Cina per mettersi meglio al riparo non solo dagli attuali lockdown ma anche da possibili tensioni tra Washington e Pechino. Anche se nessuno pensa che la Cina smetta di diventare dall’oggi al domani una grande base manifatturiera.