OPINIONI

Perché gli aiuti dei piani IPCEI non fanno per Tesla (o BYD e CATL)

Nei progetti IPCEI che consentono aiuti di stato, la bussola punta verso una innovazione che cresca con partecipazione diffusa attraverso le frontiere e trascini le PMI: una via opposta all’integrazione verticale che piace ai colossi

L’Unione Europea ha apportato alle attuali norme sugli IPCEI alcune modifiche mirate a rafforzarne ulteriormente l’efficacia. Si applicheranno a decorrere dal 1º gennaio 2022 e stabiliscono aggiornati criteri per la valutazione, da parte di Bruxelles, degli aiuti che gli stati membri concedono agli IPCEI transfrontalieri che pongono rimedio ai “fallimenti del mercato” e rendono possibili innovazioni d’avanguardia nei settori di importanza cruciale e investimenti in tecnologie e infrastrutture, facilitando la partecipazione delle piccole e medie imprese con ricadute positive per tutta l’economia dell’UE.

Le parole che vedete in corsivo nel paragrafo precedente sono quelle particolarmente importanti per capire che direzione prenderà il denaro che passa e passerà attraverso gli IPCEI, i cosiddetti progetti innovativi di interesse continentale, per i quali in settori circoscritti sono sospesi i limiti abituali agli aiuti di stato.

Le batterie e l’innovazione nell’auto e nella mobilità come noto sono certamente tra i settori in grado di attirare sussidi, quelli destinati alle batterie in particolare attraverso due differenti IPCEI, già approvati rispettivamente a dicembre del 2019 e nel gennaio 2021.

E sono anche uno strumento per capire perché questa settimana si sia segnalata per la rinuncia di Tesla alla ricerca di fondi per la fabbrica che produrrà batterie in Brandeburgo, oltre ad auto elettriche. La casa americana era infatti inclusa tra i potenziali beneficiari dell’IPCEI approvato a gennaio 2021 (e al quale aderiscono anche 12 imprese o consorzi italiani).

In effetti l’erogazione di aiuti all’interno di un IPCEI approvato comporta come si è visto che si tratti di una produzione di avanguardia, che nel caso Tesla poteva ben essere la produzione di massa di celle cilindriche 4680, finora solo sviluppate in una linea-pilota a Fremont.

Ma Elon Musk ha molta fretta di veder partire la produzione di quelle batterie, essenziali per l’avvio della commercializzazione del Cybertruck. Poiché in parallelo a Berlino sta nascendo l’impianto in Texas, Musk ha deciso di accelerare sull’impianto di Austin e non attendere i tempi richiesti dall’avvio della produzione in Germania.

GigaBerlin a questo punto è destinata ad arrivare seconda: questo non qualificherà più il prodotto locale per i sussidi. In queste ore è stato confermato quindi che Tesla rinuncerà ad aderire a un piano che inizialmente prevedeva di destinarle fino a €1,14 miliardi erogati dalla Germania per la sua fabbrica.

A leggere i commenti della stampa finanziaria, in particolare Peter Campbell sul Financial Times, i sussidi sarebbero sfumati soprattutto per la lentezza della burocrazia tedesca che ha intralciato l’avvio della manifattura in Brandeburgo.

Tesla, la casa produttrice di auto più capitalizzata al mondo, sopravviverà certo alla rinuncia ai sussidi per GigaBerlin. E tuttavia quella opportunità di accedere ad aiuti di stato potrebbe non riproporsi tanto presto, per Tesla o per gruppi con le sue caratteristiche. A questo punto è quindi interessante capire cosa attenderà quelle imprese che intendono candidarsi ad ottenere sussidi pubblici per avviare nuove fabbriche o infrastrutture.

In effetti, se si guarda con attenzione ai requisiti della normativa dell’Unione Europea sugli IPCEI, sembra abbastanza chiaro che anche in futuro questa escluderà società come Tesla, o magari le cinesi BYD o CATL, che per scelta manageriale tendono a una forte integrazione verticale.

Il perché è presto detto: si punta a coinvolgere almeno quattro stati membri, a meno che la natura del progetto non giustifichi, in via eccezionale, un numero inferiore di stati partecipanti, con il faro di una catena della fornitura diffusa che possa supportare più imprese distribuite sul territorio continentale.

Pertanto sembrano facilitate le joint venture come quella tra Stellantis e Saft o quella tra Volkswagen e Northvolt, che appaiono già impostate in questi termini, mentre i consorzi dovranno prevedere un significativo co-finanziamento da parte delle imprese che riceveranno gli aiuti pubblici.

Inoltre la normativa aggiornata tenderà dal 2022 anche a facilitare la partecipazione delle piccole e medie imprese (PMI) agli IPCEI accrescendo i vantaggi del loro coinvolgimento, grazie ad alcune modifiche specifiche che agevolano la valutazione della compatibilità degli aiuti alle PMI; ad esempio la possibilità per le imprese più piccole di contribuire ai progetti in misura più limitata rispetto a quanto richiesto alle altre imprese.

La normativa riveduta e corretta incoraggia pertanto la collaborazione tra le grandi imprese che partecipano a un IPCEI e le PMI, andando in direzione opposta all’integrazione verticale con sviluppo fortemente orientato in house.

Questo probabilmente renderà più facile a un numero maggiore di stati europei di sostenere coi loro aiuti la progettazione congiunta di IPCEI che permettano di sormontare le carenze del mercato, mobilitando investimenti in progetti innovativi e infrastrutture d’avanguardia come idrogeno, digitalizzazione, salute e microelettronica, in cui l’economia continentale ha terreno da recuperare.

Ma anche nei settori che registrano forti investimenti come la mobilità elettrica, dove secondo i calcoli dell’agenzia Reuters nel 2021 saranno globalmente investiti $515 miliardi, ci sarà spazio per nicchie che consentiranno l’accesso a PMI in grado di seguire la rotta dell’innovazione.

In pratica un gruppo deve contare sulle sue risorse se punta a portare in Europa tecnologie delle batterie già mature, come ad esempio celle a base ferrosa o quelle comuni ternarie NCM. Se può apparire cervellotico che negli IPCEI non ci sia posto per aiuti a questo genere di progetti, la cosa si spiega pensando a dove finirebbero quei sussidi: a gruppi asiatici che della produzione di celle sono già leader.

Insomma il denaro degli stati d’Europa finirebbe per aiutarli a rafforzare il loro primato, quando sarebbero comunque in grado di finanziare l’espansione di fabbriche nella nostre area. Il che nel recente passato ha già provocato un’indagine sull’Ungheria, che ha destinato aiuti all’espansione di un produttore coreano presente tra i leader globali.

Un altro conto invece è sostenere progetti IPCEI in cui gli aiuti siano un contributo decisivo a far decollare tecnologie in erba o rami che crescono in fretta ma in cui l’Europa non è all’avanguardia. Nel settore delle batterie questo potrebbe voler dire, ad esempio, celle agli ioni di sodio o con elettroliti allo stato solido.

Oppure componenti delle celle che sostituiscono materiali tossici o rari con altri da risorse rinnovabili (come sta avvenendo nel caso dei separatori) o ancora soluzioni innovative per il riciclo delle materie prime da batterie a fine vita. Ciascuno un esempio di percorso tecnologico e industriale in grado di fornire un contributo importante agli obiettivi dell’Unione Europea indicati nel programma Fit for 55.

Non dovrebbero mancare le future opportunità di allocare con una certa rapidità gli aiuti di stato che Tesla non potrà più reclamare per la sua fabbrica tedesca. Tuttavia a fronte a criticità che emergeranno nel tessuto produttivo durante la transizione e riguardo alle quali la Commissione Europea ha proposto il varo di un nuovo Fondo sociale per il clima, non mancheranno tentazioni di dirottare sussidi per progetti fortemente innovativi e sostenibili verso piani che nascondono impatti ambientali negativi e che non siano in grado di rispettare il principio di “non arrecare un danno significativo”.

Credito foto di apertura: presentazione Tesla Inc.