Una Panda a bio-metano meglio di una Mirai per il pianeta?
La risposta è tutta nella tecnologia usata per produrre l’idrogeno per alimentare veicoli fuel cell: la risposta è no se si tratta di green hydrogen ma è, indica un nuovo studio, affermativa se fosse utilizzato il blue hydrogen
La risposta alla domanda del titolo, per cominciare, non dipende in alcun modo dalla… Panda e dalla sua tecnologia, ma solo ed esclusivamente dal carburante utilizzato dalla Mirai. Perché l’idrogeno utilizzato per spingere veicoli o alimentare il riscaldamento delle abitazioni, o tutte le altre attività per le quali viene suggerito il suo impiego, ha un’impronta sul clima radicalmente differente in base alla propria origine: quasi una molecola sospesa tra un dualismo alla Dr. Jekyll e Mr. Hyde.
Lo studio pubblicato in questi giorni da due esperti delle università di Cornell e Stanford, rispettivamente Robert W. Howarth e Mark Z. Jacobson, è un campanello d’allarme che lacererà le orecchie all’impresa globale (soprattutto quella di matrice oil and gas) e ai numerosi governi che intendono sostenere non solo la tecnologia dell’idrogeno in generale ma il blue hydrogen in particolare.
Al contrario del green hydrogen (l’idrogeno verde prodotto da elettrolizzatori alimentati da energie rinnovabili che ha un effetto di zero emissioni sul conto totale dei valori che influenzano il cambiamento climatico), il blue hydrogen è stato ritenuto nel migliore dei casi una potenziale “tecnologia-ponte”.
Ma quel ponte sembra ora pericolante e portare in una direzione opposta a quella prevista, in base allo studio peer-reviewed apparso sulla rivista scientifica Energy Science & Engineering col titolo “How green is blue hydrogen?”.
I due accademici hanno esaminato le emissioni di gas clima-alteranti nel ciclo di vita completo del blue hydrogen prendendo in considerazione sia CO2, sia il metano incombusto che sfugge nei cicli di lavorazione e produzione.
Al contrario di quanto finora ipotizzato, le emissioni totali del blue hydrogen risultano solo del 9-12% inferiori al grey hydrogen: ovvero l’idrogeno ottenuto dal reforming del metano, un prodotto ottenuto con un metodo che nessuno si sognerebbe di classificare come amichevole per l’ambiente. L’idrogeno viene definito blue se il diossido di carbonio risultante dalla lavorazione di metano e acqua viene catturato e stoccato o utilizzato.
Secondo i conti di Howarth e Jacobson, la cattura del carbonio applicata a ogni fase del processo è in grado di eliminare appena il 3% delle sostanze GHG rispetto al solo catturare il carbonio nella fase del reforming, il che contribuisce fortemente a portare verso quel risultato sorprendentemente negativo di appena un 12% di emissioni in meno nel blue hydrogen rispetto all’idrogeno grigio.
Il punto debole del blue hydrogen risulta essere il metano impiegato per produrlo: malgrado la sua combustione sia più “pulita” rispetto a quella di carbone o gasolio, è però una sostanza dai pesanti effetti sull’atmosfera.
Nell’arco di venti anni, una tonnellata di metano contribuisce ad aumentare l’effetto serra nell’atmosfera del pianeta 86 volte più di quanto non faccia una tonnellata di CO2, mentre oggi si stima che il contributo del metano al riscaldamento globale incida già per un 25%.
In pratica, perdite di metano nella supply chain della produzione di idrogeno annullano ogni possibile vantaggio del produrre blue hydrogen. Gli autori si sono anche chiesti se il blue hydrogen possa trovare una “stampella” utilizzando energie rinnovabili per i propri processi, dal reforming in là, al posto del gas naturale.
Ma anche in questo caso si arriverebbe ad emissioni di 52 g/CO2 per MJ, il 47% di quelle ottenute bruciando gas naturale per avere l’energia necessaria alla lavorazione. Insomma anche in questo caso non sarebbe una low-emissions strategy efficace e la disponibilità di rinnovabili in questo caso sarebbe certamente meglio impiegata per produrre green hydrogen da elettrolizzatori.
La tabella pubblicata nel paper americano, che indica l’impronta di emissioni clima-alteranti per unità di energia prodotta dai processi di lavorazione dell’idrogeno grigio e blu e quella di carbone, nafta, gas naturale utilizzati per riscaldamento è particolarmente sorprendente e impietoso è il contributo del metano (con perdite stimate al 3,5% in base alla letteratura di settore) nel “condannare” le prospettive della tecnologia del blue hydrogen come alternativa amichevole per il pianeta.
In effetti gli autori scrivono esplicitamente che: “il blue hydrogen non fornisce benefici. Suggeriamo che il blue hydrogen sia meglio inquadrato come una distrazione, qualcosa per ritardare l’azione necessaria per decarbonizzare veramente l’economia globale dell’energia, allo stesso modo in cui lo shale gas era stato descritto come un carburante ponte e per la cattura e lo stoccaggio del carbonio in generale”.
Le equazioni e i conti di Howarth e Jacobson non si erano specificamente concentrati sull’uso veicolare dell’idrogeno blu ma, ritornando alla domanda del titolo, appare chiaro che la risposta a questo punto potrebbe essere il contrario di quella che sembrava scontata a prima vista.
Se una Mirai o una Nexo fossero alimentate a blue hydrogen (una eventualità che in Giappone e Corea del Sud è tutt’altro che improbabile considerati i progetti già in corso) la risposta quindi potrebbe davvero essere che una Panda alimentata a gas naturale abbia effetti identici o analoghi sul cambiamento climatico di quelli del veicolo fuel cell. La citycar potrebbe inoltre avere un’impronta anche migliore se il gas contenuto nel serbatoio fosse l’ancora troppo sottovalutato, anche in Italia, bio-metano.
Per mantenere insomma una competitività della tecnologia dell’idrogeno dal punto di vista del potenziale supporto alla lotta alla crisi climatica, in conclusione, l’unica scommessa sicura resta quella del green hydrogen.
Una conclusione che ci ricordava un altro recente paper, firmato da Georg Bieker e altri collaboratori del think tank ICCT e dedicato all’analisi delle emissioni nel ciclo di vita completo dei veicoli: elettrici, ibridi e convenzionali.
A pagina 16 del libro bianco appare la figura 3.3 che è dedicata alle emissioni GHG nel ciclo di vita completo di modelli di fascia media immatricolati in Europa nel 2021. Le due colonne più a destra sono quelle riguardanti i veicoli fuel cell in base al loro utilizzo di idrogeno ottenuto da gas naturale oppure da rinnovabili. Il mezzo alimentato a green hydrogen dal punto di vista dei risultati sulle emissioni ha ben poco da invidiare alla più frugale delle auto elettriche pure.
Invece, non vi sfuggirà che la colonna riguardante un veicolo alimentato ad idrogeno proveniente da gas naturale sia poco competitivo quanto a emissioni non solo rispetto a un’elettrica pura, ma anche a una vettura ibrida plug-in.
La tabella degli scienziati dell’ICCT invece colloca un veicolo fuel cell europeo ancora in vantaggio sul ciclo di vita completo rispetto a uno alimentato a gas naturale; poiché il libro bianco da cui è tratto è di pubblicazione precedente rispetto agli ultimi risultati di Howarth e Jacobson, viene da domandarsi se in una futura revisione dei valori LCA dei veicoli non vedremo un risultato ancora meno favorevole.