OPINIONI

Gli argomenti “caldi” che riaprono la questione delle ibride «plug-in»

I dati Ford sull’uso della Kuga Plug-in Hybrid e un recente post dell’uomo-faro dell’innovazione Toyota ripropongono la questione pratica delle ibride plug-in come soluzione-ponte

Gill Pratt è uno degli scienziati più brillanti ad essersi occupati di innovazione nell’auto. Da qualche anno dirige in California il Toyota Research Institute e alla fine del mese di luglio ha fatto un certo scalpore il post nel quale ha espresso la sua opinione sulla attualità ed efficacia dei mezzi ibridi e ibridi plug-in per ottenere risultati rapidi nella lotta alle emissioni.

Una opinione di retroguardia all’apparenza, vista pochi giorni dopo l’ordine esecutivo della Casa Bianca che chiama i gruppi auto americani a puntare ad un 50% di flotte a zero emissioni entro il 2030 e ha dato impulso alle agenzie federali a elaborare norme più stringenti sui consumi dei veicoli passeggeri, spingendoli verso una relativa e progressiva marginalità e lanciando un assist a chi sta progettando modelli elettrici.

Invece, secondo Pratt, “una diversità di tipi di sistemi di propulsione elettrica sono un modo migliore di prevenire il cambiamento climatico che una monocultura di soli BEV (veicoli al 100% elettrici)”. E ricordava che la produzione della batteria è la principale fonte di utilizzo di risorse e di emissioni di una elettrica pura considerata nel suo ciclo di vita completo, o LCE come lo chiamano gli addetti ai lavori.

L’equivalenza di emissioni nel ciclo di vita completo di veicoli elettrici e ibridi ricaricabili recentemente è stata riesaminata dall’ICCT, l’organizzazione che ha “scoperchiato” il dieselgate. I suoi esperti hanno approfondito la questione e misurato come nell’utilizzo europeo il confronto non sia favorevole alle auto ibride plug-in, rispetto alle elettriche al 100%. E questo nonostante il minore impatto della produzione della batteria, che nel grafico qui sotto riportato è indicato dal colore giallo ocra.

Tratta da pagina 27 di un paper firmato da Georg Bieker dell’ICCT, l’immagine confronta le emissioni GHG di vari tipi di propulsione sul ciclo di vita completo di veicoli del segmento SUV immatricolati in Europa nel 2021 (credito grafico: International Council on Clean Transportation Europe)

Dal punto di vista pratico tuttavia quello che può succedere con alcune elettriche pure, sottolineava Pratt indicando la sua esperienza personale, è che una batteria da 300 miglia di range di fatto utilizzata per una tratta quotidiana di 30 miglia da pendolare rappresenti uno spreco di risorse.

Massimizzare i benefici di ogni batteria prodotta, secondo il direttore del Toyota Research Institute rappresenta una necessità di distribuirle in modo appropriato, e quindi sostenibile. La produzione non infinita di celle (che nel prossimo futuro saranno anche esposte a colli di bottiglia di offerta e domanda delle materie prime), sarebbe a suo parere più utile in un numero maggior di veicoli, incluse ibride convenzionali, con range extender o ibride plug-in rispetto all’eventualità che siano concentrate in grandi veicoli elettrici puri con lunga o lunghissima autonomia, ma dal potenziale di rado utilizzato.

E Pratt ricordava che nel garage della sua famiglia è raro mettere carburante nel serbatoio della Toyota RAV4 Prime PHEV, che dispone di un pacco batterie con una capacità che è un sesto di quella della sua Tesla Model X. Il che ci rinvia a dati resi pubblici da Ford nel corso della settimana che si sta chiudendo.

La casa dell’Ovale Blu, analizzando i dati anonimizzati della ibrida ricaricabile più venduta in Europa, Kuga Plug-in Hybrid, si è resa conto che su 633.000 viaggi i clienti ne hanno percorsi oltre 420.000 a zero emissioni locali. Se si focalizza l’attenzione sui chilometri totali percorsi il dato è meno eclatante: il 49% della distanza totale percorsa ha impiegato solo energia proveniente dalle colonnine.

Una differenza che si spiega facilmente con le necessità di impiego della clientela: per la spesa, portare i figli a scuola, il tragitto al lavoro meglio risparmiare usando la batteria di trazione. Il viaggio del fine settimana, la gita sulla neve o al mare accumulano più strada, e in questo caso le caratteristiche delle ibride plug-in sono tali da non sollevare la questione della range anxiety, visto che l’autonomia non dipende più dalla batteria.

Un utilizzo di questo tipo, che si avvicina a quello teorico perfetto, sembra portare acqua al mulino del ragionamento di Pratt, che pare quasi voler formulare una domanda dalla risposta scontata: meglio avere in circolazione 36.000 veicoli in grado di viaggiare anche a zero emissioni locali o averne solo 6.000 teoricamente virtuosi?

Un quesito che sembra basarsi però su una visuale molto nordamericana della gamma di veicoli elettrici puri, nei quali finora Tesla ha dominato e in cui stanno per arrivare modelli come Ford F-150 Lightning o GMC Hummer EV che avranno nei pianali batterie di capacità estremamente elevate, da 100 kWh in su.

La cosa rinvia al più ampio tema della diffusione di SUV e truck come alternativa poco sostenibile alle auto, per i loro grandi motori, grandi consumi, grandi dimensioni e massa, modelli che anche in Europa e non solo in America sgomitano da alcuni lustri.

E qui viene da riflettere anche sull’approccio alla questione del gruppo per cui Pratt lavora: Toyota in America prevede di vendere nel 2030 solo un 15% di modelli elettrici puri o fuel cell, anche se una quota del 70% di elettrificati, incluse ibride plug-in.

In altri termini, mentre la strategia dei Big 3 di Detroit è ormai favorevole a puntare a un 50% di quota di veicoli a zero emissioni locali, il più grande produttore di veicoli passeggeri globale sembra invece mirare ad alzare il più possibile la quota di veicoli con la presa o per meglio dire che siano in grado di viaggiare a zero emissioni per un numero ridotto di chilometri, alla ricerca di una sostenibilità parziale che coincide con la sua strategia.

Un suggerimento che si accontenta del minimo sindacale, in attesa di tempi migliori per le sue elettriche pure (con batterie allo stato solido che sembrano meno imminenti di quelle di concorrenti) o per i suoi veicoli passeggeri ad idrogeno (un settore nel quale i problemi di infrastruttura che parte quasi da zero sono noti).

Ma il fatto che possa esserci un bias geografico ed aziendale nel ragionamento dell’ex-studente prodigio di MIT non vuol dire che il tema sollevato non sia di attualità. Anche perché se appare ormai una battaglia di retroguardia puntare i piedi sulla diffusione di una gamma di modelli elettrici puri (che tra l’altro in Europa non comporterà necessariamente batterie smisurate come quelle dei prossimi pickup americani) è chiaro che i veicoli che conservano motori convenzionali non sono una realtà che si possa pensare di nascondere sotto il tappeto come fastidiosa polvere.

E qui si potrebbe riformulare l’argomento: senza pretendere di guardare al lontano 2030, non sarebbe il caso di fare tutto il possibile per mettere presto, diciamo dal 2022 al 2025, quanti più automobilisti in grado di percorrere chilometri a zero emissioni? In questo caso, è impensabile trovare la risposta solo nelle elettriche pure.

Ci sono milioni di cittadini che nei prossimi tre, quattro anni dovranno cambiare il loro veicolo e molti sono privi di garage o abitano in condomini privi di posti auto. Veder crescere l’infrastruttura di ricarica nel e attorno al proprio quartiere sarà una delle migliori forme di pubblicità per l’auto elettrica pura: è un compito che ci aspettiamo di veder assolto dalla collaborazione tra istituzioni (con investimenti pubblici) e operatori del settore.

Ma sappiamo anche che per le caratteristiche di alcune attività lavorative, a cominciare dal classico esempio del rappresentante di commercio, o per chi ha esigenze ricorrenti di percorrere distanze elevate, una piccola virtuosa elettrica con autonomia reale sotto i 200 chilometri non sarebbe una risposta.

Così, per chi è ancora avvolto dai dubbi o non ha i mezzi per BEV dal prezzo analogo a quello di un piccolo appartamento, non dovrebbe essere troppo una sorpresa che esperti come Jake Fisher di Consumer Reports o Matt DeLorenzo di Kelley Blue Book alle domande di un articolo del New York Times che raccoglieva consigli sull’acquisto del primo veicolo con la presa, abbiano replicato che un’ibrida plug-in possa essere un buon compromesso per imparare le caratteristiche e piacevolezze della guida elettrica, minimizzandone gli inconvenienti.

Non è detto che sia il risultato perfetto, né che questa debba essere la conclusione a cui qualsiasi automobilista interessato alla sostenibilità debba arrivare per proprio conto. Ma se l’obiettivo è mettere al più presto quanti più cittadini possibile al volante di un mezzo in grado di viaggiare a zero emissioni locali (magari per 420.000 viaggi quotidiani su 633.000) sembra un sacrificio accettabile.

Credito foto di apertura: ufficio stampa Toyota Italia