Quello che le SPAC non dicono
La fase del boom iniziato la scorsa estate in cui il capitale inseguiva startup prima che fossero riuscite a dimostrare o costruire qualcosa non è conclusa: ma Nikola, Lordstown Motors, Plug Power fanno riflettere
Forse dovrebbe suggerire qualcosa che ora nel campo dell’automotive i grandi gruppi tradizionali come Volkswagen, General Motors, BMW che più hanno dato segno di abbracciare in modo coraggioso l’innovazione, vedano la loro capitalizzazione in decisa crescita rispetto a inizio anno, mentre chi è più recalcitrante, ad esempio Toyota, viene molto meno premiato.
Piani industriali sbilanciati sull’innovazione (elettrificazione, digitalizzazione, idrogeno e altro) in questa fase sembrano contare più delle opportunità di crescita. Invece alcune startup che per molte settimane sono state portate ai vertici della notorietà stanno inciampando.
In ritardi, in errori, o nell’occhio poco affettuoso degli short seller. Il fondo Hindenburg, ad esempio, aveva già iniziato a scardinare la facciata delle startup che hanno beneficiato del boom delle società-veicolo SPAC analizzando Nikola.
La relazione sulle attività di Nikola hanno favorito l’addio del fondatore Trevor Milton, che avrebbe ingigantito le capacità tecnologiche e manifatturiere aziendali, tra l’altro organizzando anche video con riprese di veicoli commerciali in effetti non funzionanti.
Il calo delle fortune di Nikola non si è ancora apparentemente esaurito perché in questi giorni il conglomerato Hanwha ha iniziato a dimezzare la sua partecipazione al capitale: come altri partner precedentemente interessati quali GM e Bosch, anche i coreani ormai nel rapporto con l’azienda dell’Arizona puntano alla fornitura, non al suo capitale.
Questa settimana Hindenburg ha relazionato le sue scoperte su Lordstown Motors, la società che prende il nome dalla ex-fabbrica Chevrolet in Ohio che il fondatore Steve Burns ha rilevato dal gruppo americano dopo che un breve interesse di Elon Musk era sfumato. La fabbrica era stata poi inaugurata con grande enfasi e Burns stesso a fare da anfitrione all’allora vice-presidente Mike Pence.
Entrata in borsa nel momento più favorevole grazie a una fusione inversa nel momeno di maggior popolarità di questo meccanismo, mercoledì l’azienda nel presentare per la prima volta i conti ha rivelato una perdita netta di $101 milioni nel 2020 e liquidità di $630 milioni.
Abbastanza all’apparenza per arrivare all’autunno, quando il pickup elettrico Endurance, di cui sono in corso i test in versione pre-produzione, dovrebbe fare il suo esordio. Per il 2021 l’azienda ha programmato spese per $275 milioni per lanciare una produzione che afferma di poter arrivare a 60.000 unità nel 2022.
Ma Hindenburgh Research (che in quanto short seller ovviamente guadagna se il titolo-bersaglio cala) solleva molti dubbi che le scadenze siano rispettate, dopo per aver parlato a lungo con ex-dipendenti ed ex- e attuali fornitori. Soprattutto perché alla capacità produttiva ottimistica si affiancherebbero 100.000 pre-ordini in numero preponderante fittizi.
Ovvero Lordstown Motors si sarebbe servita di società di marketing per generare pre-ordini (ovviamente non vincolanti) con la stessa facilità con cui si possono comprare da società specializzate pacchetti di like per rinvigorire il successo di un canale social.
Lordstown non ha risposto direttamente alle affermazioni di Hindenburg, ma il suo board ha formato un comitato per effettuare una accurata analisi del contenuto negativo del report. L’authority di vigilanza della borsa però non ha voluto attendere e ha già convocato i vertici della startup dell’Ohio, che ha sottolineato che sta collaborando in modo completo con la SEC. Giovedì è stato reso noto che un primo azionista dell’azienda ha avviato un’azione legale ritenendo di esser stato frodato.
Tra le attività che hanno attirato di recente grandi quantità di denaro sulle aspettative di crescita ci sono state anche quelle legate al settore dell’idrogeno. E qui a soffrire in questi giorni è Plug Power: non una startup ma un’azienda che esiste da una ventina di anni, l’azienda dello stato di New York ha raccolto capitale con relativa facilità da grandi gruppi come Renault e la coreana SK (capofila del produttore di batterie SK Innovation), interessate non solo all’aspetto finanziario ma alla filiera dell’idrogeno che è il mestiere della società di Latham.
Ma Plug Power ha sollevato da sola il cartellino giallo da ammonizione: nel 2018, 2019 e nei primi tre trimestri del 2020 l’amministratore delegato Andy Marsh ha segnalato la presenza di errori nella contabilità. Anche per un’azienda che finora ha messo nero su bianco perdite, e che come tutte quelle che sono state portate alla ribalta hanno più futuro che passato, per gli azionisti sapere che i libri siano in ordine, anche se indicano bilanci in rosso, non è un dettaglio.
I problemi apparentemente sono stati dovuti ai contratti di vendita con patto di locazione e alla contabilizzazione dei ROU, diritti d’uso degli asset, collegati. I contratti di PlugPower, finora attiva soprattutto come fornitrice di muletti alimentati da fuel cell hanno creato altri problemi oltre a quelli contabili.
Nell’attirare grandi gruppi all’acquisto di muletti a zero emissioni locali la società in passato ha promesso anche warrant sulle azioni ad Amazon e Walmart. Ma la recente crescita esplosiva del corso azionario di Plug Power ha trasformato quegli impegni in passività coi clienti che hanno stipulato vecchi contratti che di fatto sono stati pagati per ritirare i muletti.
Negli ultimi mesi non è stato raro vedere i titoli di alcune società crescere in valutazione del 1.000%. Prima dell’apertura odierna, Plug Power stessa nonostante lo scivolone è ancora in positivo da inizio anno del 7% e nell’ultimo anno è cresciuta del 995%.
Diverso il quadro per Nikola e Lordstown: quest’ultima da inizio anno è scesa ormai del 35%, da confrontare con una crescita dell’ultimo anno della stessa percentuale, anche se il periodo significativo è iniziato con la quotazione ad agosto 2020. Nikola infine da inizio anno perde il 3%, ma negli ultimi 365 giorni è ancora in positivo del 38%.
Tanti fattori che si cumulano, a cominciare dalla minore prevenzione verso la capacità e volontà di cambiare strategia dei grandi gruppi industriali tradizionali, fanno pensare a un 2021 che non sarà una fotocopia del 2020, specialmente della seconda metà dello scorso anno. La disponibilità di alternative di investimento non può che rendere molto più circospetta in questa fase l’allocazione dell’easy money ancora sostenuta da tassi e rendimenti dei bond storicamente bassi, sebbene in relativa crescita rispetto ai minimi assoluti.