Il gelo di un «Big Short » su Nikola Corp.
Dopo Tesla, gli specialisti della scommessa sul naufragio delle società hanno nel mirino l’azienda di Trevor Milton: è l’inizio di una zavorra permanente all’innovazione?
Ieri si è chiusa una settimana sulle montagne russe più vertiginose che si possano immaginare per Nikola Corp. Ha iniziato in bellezza con la notizia del secondo grande (anzi, il più grande) accordo industriale dopo quello con CNH, quello con General Motors, e l’ha conclusa come nuovo bersaglio prediletto del meccanismo dello short, perdendo in borsa quello che aveva appena guadagnato ed anzi quasi retrocedendo al livello a cui aveva esordito a Wall Street lo scorso 4 giugno, dopo una fusione con una SPAC.
Il fondatore di Nikola Trevor Milton, che nei prossimi giorni passerà certo molto tempo con lo studio legale Kirkland & Ellis, si trova a ripercorrere una parte, la meno gradevole, della carriera da uomo al comando per antonomasia tra le società della tecnologia: Elon Musk. Questa volta nel quotidiano duello con le società specializzate nello short, nello scommettere sulle aziende deboli o sopravvalutate.
Nel caso di Hindenburg Research (alle società con questo approccio spesso piacciono nomi catastrofici o tetri: Citron Resarch, Muddy Waters) l’ipotesi sul tavolo è che Nikola sia in pratica un castello di carta senza vera offerta tecnologica, accusa quest’ultima che anche i Tesla-haters non si sarebbero sognati di addossare alla casa di Musk.
In pratica la società che sta scommettendo contro Nikola sottolinea che questa ha affermato decine di falsità: sulle sua capacità, potenziale tecnologico e industriale, partner e prodotti. Che avrebbe gonfiato le sue qualità e minimizzato le difficoltà e difetti.
In particolare accusa i vertici Nikola di aver favorito familiari nello staff e di aver promesso risultati che non era in grado di raggiungere nei tempi previsti. Un genere di accuse che non è fatto per migliorare la valutazione di una azienda a Wall Street, ma che non ha fermato quella di Tesla.
Anche Musk come noto con l’acquisizione della divisione di energia Solar City ha scaricato i problemi della famiglia su Tesla, e quanto a deadline non rispettate la casa californiana è senz’altro ai vertici in molte pagine del Guinness. Ma nessuno dei due aspetti ha fermato il corso del titolo.
Hindenburg Research, in buona sostanza ha fatto poco più di quanto sia stato in grado di fare l’agenzia Bloomberg, che lo scorso giugno ha ricostruito il lancio del grande camion Nikola One a dicembre 2016 svelando che non era funzionante e che le caratteristiche tecniche non erano aderenti alla realtà.
Certo non un episodio edificante ma che è tutt’altro che raro in un panorama di startup che, in ogni settore e non solo in quello dei veicoli elettrici, sgomitano per avere un minimo di visibilità che permetta di accedere ai finanziamenti necessari per restare a galla fino all’avvio di una vera attività, di vere linee di produzione e commercializzazione.
E quanto a prodotti reali, lo schema di gioco di Nikola da quando la teniamo d’occhio non è cambiato affatto: cercare di rendere visibile e attraente il nuovo che c’è nel marchio puntando ad attirare protagonisti tradizionali dell’automotive.
Quando è stato annunciato l’accordo Nikola/GM in molti si sono chiesti cosa avesse poi da guadagnare il gruppo di Detroit associandosi a una startup che non ha ancora prodotto un pickup o un furgone, nonostante Wall Street in una breve fase di euforia ne avesse portato la capitalizzazione oltre quella Ford.
Come ha scritto Al Root su Barron’s da quell’accordo GM ha ricavato soprattutto credito, credito nel suo essere attrezzata per muoversi bene nel mondo della mobilità sostenibile. Dal lato di Nikola l’accordo è in buona sostanza una ripetizione di quello con CNH Industrial che porterà alla produzione del Tre elettrico (dal 2021) e fuel cell (dal 2023) in Germania.
Nikola, a rileggersi bene le note stampa di quell’accordo, porta una confezione e un atteggiamento, più che tecnologia, know-how, figuriamoci una fabbrica. La casa di Milton si è messa in luce per progetti e accordi assai più che per tecnologia, di cui è sempre andata alla ricerca.
In alcuni casi, come con la svedese PowerCell per le pile a combustibile, gli accordi sono poi sfumati. La promessa dello scorso anno di batterie a prezzi stracciati non ha avuto seguito. Milton è però riuscito finora a trovare alternative e fornitori per batterie, fuel cell, idrogeno.
Per il programma del Nikola Tre in particolare oltre che tramite Iveco via un altro investitore, Bosch. Dopo l’annuncio di febbraio, tuttavia, non c’era stata una ondata di report negativi per contestare la validità del progetto che a Ulm sta procedendo.
La differenza tra Nikola/CNH e Nikola/GM è poco più di sei mesi, un arco di tempo segnato dalla quotazione in borsa. E con l’ingresso a Wall Street si può entrare nel plotone di società vagliate dai “maestri” dello short, della corsa verso il fondo, contro cui lanciare i siluri che portano a picco un titolo, come avviene ora con Nikola.
A poche ore dall’inizio del confronto probabilmente anche legale tra la società di Milton e Hindenburg Research, non è determinante capire subito e definitivamente chi abbia ragione.
Invece è importante fare una riflessione sul meccanismo dello short e sulle potenziali conseguenze che questo può avere per lo sviluppo di startup e società della tecnologia, al di là delle conseguenze che avrà per Nikola.
Trovate questo articolo inserito nella categoria opinioni invece che in quella business a cui potrebbe legittimamente appartenere, perché l’esperienza di Nikola (e Tesla) suggerisce la conclusione che a medio e lungo termine ogni società innovativa che volesse passare da Wall Street rischia di essere silurata dagli specialisti della catastrofe.
Hindenburg Research e le altre tendono a raffigurarsi, sulla scia del successo dei protagonisti della crisi dei mutui sub-prime, come difensori del buon senso e della correttezza. E potrebbero sottolineare che hanno preso di mira una Nikola e non, tra le tante società entrate a Wall Street questa estate, una Velodyne, leader dei sensori laser.
Ma nessuno impedisce a società armate di molti dollari di mettere nel mirino pure la concreta Velodyne, e se non lo fanno è perché cercano bersagli più ovvi e con un maggior numero di punti deboli.
E con l’eventuale moltiplicarsi di società specializzate nello short, si potrebbero moltiplicare i gestori che passano le giornate alla scrivania passando al microscopio qualsiasi promettente startup (non solo dell’auto ma della tecnologia in generale) individuandone le debolezze e impedendo loro di fatto di superarle o di rimediarle per ottenere invece il risultato di un guadagno immediato.
In pratica, questo a lungo andare potrebbe voler dire lasciare solo gli investitori privati a sostenere lo sviluppo delle startup. Venture capital e fondi non scarseggiano nella Silicon Valley. Ma una Wall Street ostile si può configurare come un ostacolo per ciascuna azienda verso il diventare grande.
A lungo termine potrebbe perfino diventare un assist involontario al progresso tecnologico che avviene fuori dall’America: in Cina e anche in Europa. Nel Vecchio Continente esempi come quelli dell’Airbus delle batterie (e dell’idrogeno) indicano un percorso del tutto diverso da quello nord-americano.
Programmi pan-europei sembrano in grado di proteggere alcune filiere di ricerca e industria che potranno rivelarsi fondamentali in futuro. Agli ultra-liberisti non piace quando non è il mercato a “selezionare i vincitori”. Ma meccanismi a rischio boomerang come quello del diffondersi degli short sembrano segnalare che c’è il rischio che la selezione avvenga al ribasso.
Piuttosto che lasciare affondare progetti e tecnologie promettenti, ma non necessariamente di immediato successo o con difetti a cui rimediare, l’approccio protettivo che si tende ad agevolare in Europa, dagli incubatori universitari ai progetti basati sulle call, può offrire una alternativa. Una alternativa che ora non sarà di molto aiuto a Nikola nel suo duello con gli short di Wall Street.