Quel virus che attacca il futuro dell’economia sostenibile
Spunta una ricetta suicida per il futuro dell’economia dopo la crisi: seppellire energia e mobilità sostenibile per rilanciare un’economia che non lo è e anzi ha silenziosamente fatto da incubatrice all’emergenza
Se andate a rivedere i dati cinesi delle vendite di auto convenzionali ed elettriche dello scorso febbraio, al picco locale dell’emergenza-Covid19, vedrete un antipasto di quello che saranno i numeri di marzo qui in Italia, in Europa e negli Stati Uniti.
A fronte di questo baratro che si aprirà per alcune settimane o mesi nei ricavi dei gruppi, ovunque si sta correndo ai ripari. FCA ha aperto una nuova linea di credito da €3,5 miliardi, Daimler ha chiesto alle banche una nuova linea con capacità tra i €10 e €15 miliardi. Volkswagen col fermo globale, Cina esclusa, affronta circa €2 miliardi di costi fissi alla settimana, ha detto alla TV ZDF il suo amministratore delegato Herbert Diess.
Questo panorama raggelante segue una fase in cui i settori della nuova mobilità hanno già messo alla prova le risorse del mondo automotive, notoriamente ad alta intensità di capitale, da molto prima che iniziasse l’emergenza sanitaria. E non ci riferiamo solo ai progetti di fusione come quello tra FCA e PSA. Ci riferiamo al fiorire di collaborazioni specifiche nate per tenere più agevolmente sotto controllo le spese.
Come quella tra Ford e Volkswagen su piattaforme elettriche, guida autonoma, furgoni. O quella tra General Motors e Honda sulle fuel cell e guida autonoma. E quella tra BMW e Daimler sui servizi di mobilità. Oppure quella, recentemente ipotizzata, sui sistemi operativi delle auto che potrebbe coinvolgere due o più gruppi tedeschi.
La solita agenzia di rating Moody’s, che prevede per il 2020 un calo globale di vendite di veicoli leggeri del 14%, è intervenuta con un report il 26 marzo per fare da “notaio” a questa crisi. 14 gruppi, anzitutto case auto ma anche gruppi della fornitura quali Valeo, Faurecia, Schaeffler, sono stati messi sotto sorveglianza negativa.
L’analista del settore della società di consulenza PWC José Baghdad al quotidiano finanziario La Tribune ha detto di questa crisi: “giunge in un momento complicato per i costruttori, che devono gestire una crisi sottostante di trasformazione strutturale. Rivedranno probabilmente le loro priorità di investimento“.
Le case auto e della fornitura non cercano solo cash o garanzie. Stanno anche iniziando a chiedere altro. L’associazione europea del settore ACEA ed altre della filiera hanno inviato alla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen una lettera in cui segnalano possibili danni irreversibili alla struttura produttiva e alla collegata catena del valore.
Firmata dall’attuale presidente dell’associazione Mike Manley e dagli omologhi della componentistica, pneumatici ed autoriparatori, non cita esplicitamente le normative sulle emissioni di gas clima-alteranti entrate in vigore il 1 gennaio.
Appare però di fatto una richiesta volta ad evitare alla categoria che bilanci già depauperati siano appesantiti anche da possibili multe, multe che sono previste chi incorrerà nel mancato rispetto dei limiti prefissati. Il fatto che l’ACEA non sia stata vocale come in altre circostanze nel fare richieste sulle misure in questione sembra un segnale che non sia stata compatta.
I primi due mesi del 2020 avevano già delineato un chiaro quadro di gruppi che apparivano in linea con gli obiettivi di riduzione delle emissioni. In particolare BMW, PSA, Toyota erano già in marcia verso un 2020 nel quale avrebbero potuto dimostrare di essere arrivati preparati al cambio di scenario.
Non mancano inoltre le analisi di esperti che non prevedono che il crollo delle immatricolazioni colpisca automaticamente le possibilità di raggiungere gli obiettivi di un gruppo auto.
I valori presi in esame sono infatti quelli dell’intera flotta; perché il crollo delle vendite incida negativamente occorrerebbe constatare che con la crisi la clientela smetta di acquistare auto economiche o a zero emissioni, continuando a comprare grandi SUV o modelli molto inquinanti (e costosi).
Ci sono anche analisti che, basandosi sulle crisi precedenti (in particolare il comportamento degli acquirenti americani dopo il crac-Lehman), ritengono che i comportamenti di acquisto post-quarantena possano orientarsi più facilmente verso modelli più piccoli o comunque più efficienti, inclusi quelli elettrici o ibridi.
In una fase di crisi acuta e di eccezionalità, nella quale è vitale anzitutto il salvaguardare la sicurezza sanitaria e a ruota i settori essenziali, pensare che la principale manifattura europea possa avere la necessità di una moratoria non appare una richiesta bizzarra.
ACEA e partner firmatari, nella lettera ai vertici di Bruxelles indicano anche che “non è nostra intenzione mettere in discussione le leggi in quanto tali, né gli obiettivi di sicurezza stradale, lotta al cambiamento climatico e protezione dell’ambiente”.
Per chi però ha a cuore la sostenibilità e in particolare l’aria pulita (e vorrebbe che lo fosse nel prossimo futuro senza i motivi che l’hanno resa tale in queste drammatiche giornate) sussistono tuttavia motivi di legittima preoccupazione.
In particolare riguardo alla coesistenza degli obiettivi europei stabiliti per le emissioni nel 2030 (riduzione del 37,5%) con lo stato di crisi del settore auto. Dopo l’annuncio del Green New Deal che dovrebbe essere la cifra della legislatura in corso, entro metà decade i traguardi 2030 avrebbero dovuto essere rivisti per assicurare una ulteriore accelerazione verso un settore della mobilità a zero emissioni.
Il mese scorso, prima che iniziasse la crisi sanitaria, il ministro dell’Economia di Berlino Peter Altmaier aveva scritto al responsabile dell’Ambiente della UE Frans Timmermans cercando di sottrarre il settore auto da nuovi ulteriori paletti riguardanti le emissioni.
La presidente della Commissione Trasporti del Parlamento Europeo Karima Delli, si era già espressa sull’eventualità di una controriforma sulle politiche continentali relative alle emissioni: “è ora che il nostro settore debba prepararsi alla transizione energetica, non tra un anno o anche oltre”.
Si potrebbe obiettare che fabbriche definitivamente chiuse non sarebbero in grado di produrre alcun veicolo, nemmeno un veicolo green. Ma il punto è che in Europa nessuna di quelle fabbriche sembra poter stare a galla senza il supporto di aiuti pubblici: non a breve, forse non a medio termine.
Le lezioni recenti degli aiuti pubblici ai settori colpiti da crisi precedenti, dalle banche alle compagnie aeree, sono state che nessuna di quelle società ha dimostrato il minimo senso di riconoscenza per i sacrifici che quegli aiuti hanno richiesto ai comuni cittadini.
Ci aspetta, nel migliore dei casi, un lustro dagli stili di vita ben diversi da quelli a cui siamo stati abituati. Un conto è chiedere di fare sacrifici a milioni di persone giustificati dall’innovazione e dal futuro. Un conto è chiedere di tirare la cinghia per consentire il ritorno a un’epoca di SUV parcheggiati in seconda fila nelle stradine di centri storici nati nel medioevo.
In una lettera aperta inviata dal WWF e altre organizzazioni ambientaliste ai presidenti delle istituzioni europee Ester Asin, che appartiene all’ONG del Panda, ha riassunto il senso della visione che piani di ristoro dell’economia dovrebbero contenere: “il benessere delle persone a lungo termine è inestricabilmente collegato alla salute del nostro ambiente e del clima”.
“Business as usual non è un’opzione e misure non mirate distribuite su tutta l’economia rischierebbero di tenere artificialmente in vita settori obsoleti ed inquinanti, che non hanno futuro nell’economia di domani”.
Questa visione non può essere negoziabile, specialmente a fronte dei siluri che sempre più numerosi stanno per essere indirizzati verso i settori dell’economia sostenibile: dall’auto elettrica alle rinnovabili. Il perché è presto detto.
Fatih Birol, direttore di quella IEA (International Energy Agency) finora nota per la cautela sulle prospettive green, non ha mancato di far notare nei giorni scorsi come la domanda di energia eliminata dall’emergenza del virus Covid-19, abbia portato alla crescita della quota delle rinnovabili nella generazione di energia. Il tutto in proporzioni molto più grandi del previsto e su una pluralità di mercati.
Sembra una buona notizia, quasi una foto dal futuro, se non fosse anche una situazione che mette con le spalle al muro gruppi che in passato non hanno avuto problemi a organizzare colpi di stato, dittature, nel migliore dei casi disinformazione per difendere i propri interessi, costi quel che costi.
Se si aggiunge a questo i dati della sola porzione di 2020 in cui le vendite di auto elettriche auto elettriche e ibride hanno avuto mano libera, secondo i dati JATO Dynamics si nota che il settore dei veicoli con la presa era il solo prospero in un quadro stagnante. Alle 75.400 unità immatricolate a febbraio 2019 in Europa hanno risposto 135.500 veicoli il mese scorso. Un incremento di oltre l’80% a spese di mezzi che bruciano idrocarburi.
Così sarà certamente con scorno dei portatori di interessi del passato (inclusi alcuni governi in carica, a cominciare da Polonia e Repubblica Ceca), sapere che alla fine della riunione dei leader UE del 26 marzo scorso la dichiarazione finale ha confermato il sostegno alle politiche del Green New Deal.
Come i settori dell’industria e della manifattura che hanno a che fare con un futuro sostenibile, qualunque politica voglia confermare obiettivi di sostenibilità può diventare un bersaglio.
Chi vorrebbe riportare in auge un’economia decrepita vedrà come un nemico chi approva che un piano green sia un pilastro del rilancio nella fase che seguirà l’apice della crisi scatenata dalla pandemia. Come trasformarlo in sostegno reale a energia pulita, a infrastruttura e strumenti di mobilità sostenibili?
Michael Liebreich, co-fondatore di BNEF (Bloomberg New Energy Finance) ha messo in fila suggerimenti che sono allo stesso tempo un elenco di chi punterà i piedi: “Nessun salvataggio dovrebbe andare a beneficio di settori o modelli di business che non siano praticabili nel mondo de-carbonizzato che si avvicina, come linee aeree low-cost, generazione di energia dal carbone, o attività non economiche di estrazione di petrolio e gas mediante fracking, scisti bituminosi o trivellazioni in acque profonde”.
Oggi, a fronte dell’aggravarsi dell’emergenza del virus Covid-19, le priorità immediate e universali sono certo quelle dei presidi sanitari e farmaceutici, l’approvvigionamento costante di cibo e beni essenziali.
Per il rilancio post-crisi, quando si moltiplicheranno i settori bisognosi di aiuto, ricordando l’atteggiamento passato disinvolto di molti manager, Liebreich suggerisce di non lasciare ai board dei grandi gruppi auto carta bianca aprendo i rubinetti del denaro per lasciarli liberi di servirsene a piacimento.
Molto meglio, nel campo dei veicoli elettrici, creare scientemente un livello sostenuto di domanda di quei mezzi che è auspicabile vedere nelle nostre strade e città: dalle piccole e-bike ai veicoli commerciali ed autobus.
Sostenendo generosamente nell’acquisto anzitutto quei settori che sono più rapidamente in grado di ripartire o che non si stanno fermando nemmeno nell’occhio del ciclone: quali il trasporto delle merci urbane e non, la consegna di pasti e cibo, i servizi pubblici essenziali.
Mobilità elettrica finora è stata associata a cartellini del prezzo elevati. Ma già oggi molti modelli elettrici di citycar non sono più inavvicinabili. E non tutte le nuove iniziative debbono avere il costo unitario di un autobus elettrico.
In Olanda, ad esempio, è già in vigore un programma per favorire l’acquisto di e-bike (e la quota italiana del settore è molto superiore alla quota di quattro ruote elettriche); il leasing di un mezzo da €3.000 ai lavoratori dipendenti che lo scelgono per andare al lavoro costa €7 al mese. Meno di Netflix.
Ma non saranno queste le proposte di chi ha pronta una ricetta avvelenata: saranno la rimozione delle ZTL, il rilancio delle auto private di ogni propulsione, l’attacco al trasporto pubblico locale, l’opposizione alle ciclabili.
Per creare così un bel “brodo di coltura” di aria sempre peggiore nel quale tormentare bronchi e polmoni di anziani, cardiopatici, asmatici e facilitare ancora di più il lavoro della prossima pandemia, là dove non sarà arrivata l’attuale.