AUTOMAZIONE

Costerà caro ad Anthony Levandowski uscire dall’ombra della Google car

L’ex star della tecnologia a guida autonoma avanzata ha ammesso la colpevolezza in una delle imputazioni oggetto del caso di spionaggio industriale che ha coinvolto Alphabet e Uber

Una delle primissime, e tra le più brillanti, figure che possiamo considerare star del settore della guida autonoma, Anthony Levandowski, ha ammesso le sue responsabilità nel processo intentatogli da Google, nel quale era accusato di aver violato la proprietà intellettuale del suo datore di lavoro prima di passare a un gruppo concorrente.

Quello che sta per concludersi è stato il più noto caso di concorrenza sleale di un settore della Silicon Valley che sembrava destinato, proprio nel mezzo dell’effervescenza degli Anni ’10, a mettere presto o prestissimo in campo robotaxi commerciali.

Per Levandowski il procuratore federale della sede di San Francisco, un dipartimento per la sua collocazione abituato a trattare casi che riguardino violazioni della proprietà intellettuale come appunto in questa circostanza, ha chiesto una pena non superiore ai 30 mesi di reclusione, come contropartita dell’ammissione di colpevolezza.

Levandowski aveva iniziato a far parlare di sè, in bene, fin da studente: prima di iniziare a lavorare nella Silicon Valley da studente all’università di Berkeley aveva costruito una moto a guida autonoma. Ancora giovanissimo aveva fondato 510 Systems, startup concentrata sulle tecnologie di mappatura e in particolare sul LiDAR.

In una fase pioneristica della ricerca sulla guida autonoma la tecnologia di rilevamento a distanza che raccoglie dati sugli oggetti servendosi di impulsi laser era considerata da tutti (o quasi, ad esempio Elon Musk) determinante per progredire rapidamente verso auto che facciano a meno di guidatori.

La pensavano così anche a Mountain View, dove lo scienziato è diventato presto una star del gigante californiano della tecnologia, dedicandosi a Street View e poi al progetto della Google car. Google ha anche acquisito la 510 Systems e fino alla fine del 2015 Levandowski era uno dei migliori assi della pattuglia di ingegneri specializzati di Google.

All’inizio del 2016 però Levandowski se n’era andato da Google per fondare insieme a Lior Ron la startup Otto incentrata sulla realizzazione di camion e mezzi commerciali a guida autonoma.

Quella stessa estate Otto veniva comprata da Uber per la cospicua cifra di $680 milioni. Travis Kalanick, il fondatore allora alla guida del gigante del ride sharing, voleva farne il cardine dei propri progetti. Piani miranti, a gioco lungo, a trasformare la sua flotta in schiere di robo-taxi senza autisti.

Ma buona parte dell’accelerazione del progetto di Kalanick e Levandowski era basata su tecnologia sviluppata a Mountain View. Nel 2017 questa era stata la pesante accusa che Waymo (la società creata nel frattempo per sviluppare e commercializzare i sistemi di guida autonoma visti sulle Google car) lanciava al suo ex-progettista.

Secondo le accuse portate davanti alla competente procura federale, in mano ad Otto prima e a Uber poi erano finiti ben 14.000 preziosi file di tecnologia che Levandowski si era portato via nel dicembre del 2015.

Per uscire dalla controversia Uber, nel frattempo non più guidata dal fondatore Kalanick, è venuta a patti con Alphabet, la capogruppo di Google e Waymo che ha accettato come compensazione azioni della startup di San Francisco.

Ma l’azione penale federale contro Lewandoski è andata avanti, con un procedimento che prevedeva 33 capi di imputazione. Alcuni prevedevano la reclusione fino a 10 anni.

L’ex-studente dell’università di California alla fine si è dichiarato colpevole di aver scaricato sul suo laptop personale un file che tracciava gli obiettivi del programma Google sulla guida autonoma avanzata.

Levandowski il 4 marzo ha chiesto lo stato di insolvenza personale, previsto dalla legislazione americana, e che permette di negoziare i debiti di singoli individui. Tra le spese che dovrà affrontare il rimborso di $756.500 in spese legali del suo ex-datore di lavoro.

Ma si tratta solo di un antipasto nei rimborsi: la corte statale della California ha intimato allo scienziato che dovrà rimborsare $179 milioni a Google per i danni procurati dai suoi atti quando stava lasciando l’impiego.

Credito foto di apertura: blog Waymo