OPINIONI

Per il “super-falco” dell’austerity la mobilità elettrica non è mai verde abbastanza

Hans-Werner Sinn, dopo le prediche sulle virtù dell’austerità, ora predica contro la sostenibilità e vorrebbe salvare l’industria dell’auto tedesca da se stessa: ma i conti dell’economista non tornano

Hans-Werner Sinn, per alcuni lustri la vestale tedesca dell’ordo-liberismo e vate dell’austerity come soluzione ad ogni malanno economico, non si rassegna. Forse, visto che il suo approccio economico spacciato spesso per “buon senso” perde sempre più colpi, ora tenta di applicare il suo “buon senso” anche nell’ambito della mobilità elettrica.

Dopo essere stato il difensore di una certa idea di Germania, quella che aveva come simbolo il marco, Sinn forse è sinceramente convinto di essere il difensore dell’auto tedesca e quindi dell’economia nazionale. Ma propugnando l’arroccamento su posizioni di “buon senso” che in realtà si traducono, per una manifattura messa di fronte a una svolta fondamentale, nel rischioso consegnarsi mani e piedi al falsamente rassicurante “si è sempre fatto così“.

Non contento di aver firmato a primavera un articolo non sottoposto a referaggio nel quale lui e due co-autori sostenevano che le auto diesel inquinano meno delle auto elettriche (articolo subito sottoposto al tritacarne del confronto su dati aggiornati e non di comodo), ieri Hans-Werner Sinn che è una firma del circuito Project Syndacate che pubblica articoli di fondo e commenti su economia e politica ha replicato con una nuova colonna che è stata ripresa anche dal quotidiano progressista Guardian.

Sinn non ha avuto timore di ripetersi. Ha citato come fonte della mancanza di credenziali verdi delle auto elettriche (modestamente) il suo articolo precedente, la sua dubbia interpretazione di una pubblicazione Volkswagen sul ciclo di vita completo dei veicoli prodotti, e una più recente ponderosa pubblicazione del think-tank austriaco Joanneum Research Life, studio sollecitato da automobile club tedesco ed austriaco.

A primavera l’ADAC, principale automobile club tedesco con 18 milioni di membri, aveva fatto rumore anticipando la realizzazione di questo studio che nei primi risconti indicava che la mobilità più rispettosa dell’ambiente non è elettrica ma a metano.

Le assunzioni e conclusioni dei risultati del lavoro affidato dall’ADAC e dal “cugino” austriaco OAMTC (nonché dalla federazione internazionale dell’auto FIA) all’istituto Joanneum Research Life hanno creato immediatamente polemiche che si erano poi sopite in attesa dell’uscita.

A settembre lo studio, che riguarda l’utilizzo dei veicoli considerati nell’intero ciclo di vita, dalla produzione fino allo smaltimento, alla fine è apparso ed ha ribadito la conclusione che i veicoli a minore impatto per il clima sono quelli a gas naturale, seguiti praticamente a pari merito dalle auto elettriche e diesel. Fanalino di coda le vetture a benzina.

I ricercatori del think tank di Graz (un istituto auto-definito non-accademico e sostenuto finanziariamente dalle regioni di Stiria e Carinzia) hanno concluso che in termini di performance ambientale solo i mezzi a idrogeno e quelli elettrici alimentati con energia prodotta al 100% da fonti rinnovabili potranno far meglio dei veicoli a gas naturale.

Considerando il mix energetico tedesco (nel 2018 carbone e lignite 35,4%, gas 12,9%, rinnovabili al 4,9% e nucleare 11,8%), lo studio evidenzia che l’impatto ambientale delle elettriche diventa inferiore a quello delle auto diesel solo dopo una percorrenza di 219.000 km e mai nel caso del metano, principalmente a causa dell’inquinamento generato dalla produzione delle batterie.

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Circa sei mesi fa l’esperto olandese Auke Hoekstra aveva ripetuto la misurazione, sopra in azzurro, dei valori di emissioni nel ciclo di vita completo di una Tesla Model 3 e di una Mercedes C220d, contestando quelli assunti dallo studio di Hans-Werner Sinn e co-autori, qui in rosso (credito immagine: Liebreich & Associates)

Dei tre supporti alla tesi di Hans-Werner Sinn, commentare lo studio in cui si auto-cita è superfluo, se si considera che il confronto tra assunzioni degli autori e variabili reali si trasforma in un auto-gol. Per chi non volesse passare troppo tempo a rileggere tutte le obiezioni ai calcoli il grafico qui sopra mette a confronto le asserzioni di Sinn & C. e dati più solidi nel confronto tra una Mercedes diesel ed una Golf elettrica, e la Volkswagen non ci rimette.

Anche la chiamata alle armi di Sinn a Volkswagen a supporto dell’auto convenzionale è molto traballante. Effettivamente la casa di Wolfsburg ha pubblicato lo studio, nel quale sottolinea come il mix energetico, ad esempio quello tedesco rispetto a quello europeo o francese o italiano, possa ritardare il sorpasso nel conto di emissioni di CO2 da parte dei veicoli elettrici.

Ma la marca tedesca ha anche indicato chiaramente nelle stesse pagine che uno dei fattori di emissioni maggiori per l’auto elettrica, la produzione del pacco batteria, tra la vecchia Golf elettrica e la nuova famiglia ID sarà messo sotto stretto controllo: i grammi di CO2 emessi per kWh di capacità della batteria della ID sono il 60% di quelli emessi nella produzione della Golf.

E rappresentano il 43% del totale della produzione di gas clima-alteranti nel processo produttivo completo del modello costruito sulla piattaforma modulare elettrica MEB. Ma Volkswagen non si è accontentata di sottolineare che tra una Golf diesel e una ID elettrica non ci sarà partita in termini di emissioni.

Ha anche scritto nero su bianco che l’attuale Golf TDI emette 140 grammi di CO2 a chilometro nel ciclo di vita completo contro 119 per la e-Golf. La cosa curiosa di questo puntare i piedi da parte di Sinn ed altri che la pensano allo stesso modo nel supportare l’industria automobilistica come loro vorrebbero che fosse, è che ormai i vertici dei grandi gruppi auto stanno andando in tutt’altra direzione.

Potrebbe bastare, come contro-analisi dell’articolo di fondo di Sinn e per chi ha fretta le basi traballanti del rigore col quale sono sostenute le virtù della motorizzazione basata sui combustibili fossili saranno già evidenti. Ma, per chi non ha fretta, iniziamo ora una lunga disamina del terzo studio a supporto delle carenze di qualità dell’auto elettrica, come sarebbero emerse per mano degli autori di Joanneum Research Life.

Hans-Werner Sinn si appoggia al suo precedente studio, a una pubblicazione Volkswagen che la casa tedesca ha precisato smentendo che una Golf elettrica emetta più di una diesel e a uno studio commissionato dall’automobile club tedesco ADAC ed austriaco OAMTC che secondo l’esperto olandese Auke Hoekstra “è la lobby anti-veicoli elettrici al suo meglio, che usa ogni trucco del manuale per far sembrare buono il veicolo a combustione interna ed il veicolo elettrico cattivo”.

Per quest’analisi ci avvaliamo ancora del lavoro di debunking effettuato poco dopo la pubblicazione dello studio da parte di Auke Hoekstra, esperto del Politecnico di Eindhoven e commentatore seriale dei temi della sostenibilità, specie legata alla mobilità.

Il ricercatore olandese in effetti ha definito il lavoro compilato dagli autori come il prototipo dello studio anti-elettrico: basato sul tendere a ridimensionare i benefici della mobilità elettrica, oppure a scusare chi non vuole rassegnarsi alla transizione a emissioni più basse nel trasporto individuale.

Sostanzialmente tutti gli studi usano lo stesso modo di calcolare gli effetti delle emissioni, quello che cambia è legato alle variabili di input: mettendo cifre scelte con cura si trattano bene alcuni settori, si mettono sotto pressione altri, volontariamente o meno. E gli errori nello scegliere i numeri a supporto per cominciare tornano al tallone di Achille dell’auto elettrica sul versante delle emissioni: la produzione delle batterie.

Il primo errore dello studio di Joanneum Research infatti è gonfiare le emissioni di gas clima-alteranti connesse alla produzione di batterie: assumendo 163 chili di CO2 per kWh, un valore superato. In un articolo apparso sulla rivista scientifica Joule Hoekstra ha indicato in 65 chili di Co2 per kWh il valore corretto attuale basato sulla letteratura più recente.

Questo senza dubbio è ancora lo scoglio maggiore nel limitare l’impatto di un veicolo elettrico: la letteratura scientifica in materia non precede ma segue i progressi industriali, perché le aziende sono abbottonate sui loro processi e i loro miglioramenti. Di conseguenza le fonti sono un fattore che non solo è importante, può anche essere precario o tardivo.

Hoekstra ha sottolineato che le fonti dell’istituto austriaco sono 3. La prima fonte è uno studio di Ellingsen et al, 2014 che risale in realtà fino ad un altro studio di Rhydh and Sanden (2005): perciò i valori sono quelli di una manifattura nella quale Tesla aveva un anno e mezzo e il più grande gruppo globale di batterie, CATL, non esisteva. I valori di emissioni nella produzione delle celle di batterie non solo cambiano da un paese all’altro per scelte industriali e per mix energetico utilizzato, ma ovviamente anche in base al periodo, con costanti efficientamenti.

La seconda fonte indicherebbe non uno studio ma un policy brief dell’associazione ICCT (2018) come sostanziale conferma che le emissioni prodotte dalla manifattura di una batteria possano valere 175 chili di CO2 per kWh.

Solo che nel testo l’ICCT in realtà indica quel valore come la stima di uno studio di Romare et al. (2017). Di fatto quest’ultimo studio, molto controverso e al quale le autrici hanno dovuto far seguire chiarificazioni perché travisato spesso, è la terza fonte di Joanneum Research Life.

Romare et al. (2017) era in effetti non uno studio ma un meta-studio: ovvero un riepilogo degli studi effettuati sulle emissioni collegate alla manifattura di veicoli elettrici. Gli autori hanno sottolineato che, essendo riferito a studi e a una situazione nella quale la manifattura di auto elettriche era una nicchia, sarebbe stato improvvido prenderlo come mappa di riferimento per un’industria in grado di affrontare grandi numeri, come avviene ora con Tesla, Volkswagen e case cinesi.

Pertanto quella variabile di 175 kg CO2 equivalenti per chilometro appare poco affidabile e datata. Per confronto, lo scorso ottobre il Politecnico di Milano ha presentato il suo annuale Smart Mobility Report e nel quinto capitolo, concentrato sull’impatto ambientale dell’auto elettrica, ha fatto i conti con quattro scenari di manifattura (Cina, Germania e Italia) e quattro segmenti presi in esame (A, B, C e D).

175 kg di CO2 a chilometro sul ciclo di vita completo del veicolo equivalgono a circa 35 grammi di CO2 a chilometro. Ebbene: quel valore secondo il Politecnico sarebbe superato solo dalla manifattura di batterie fatte in Cina, fin da veicoli elettrici dei segmenti A, B e C, mentre i grammi di CO2 a chilometro sarebbero molto inferiori per veicoli con 150.000 chilometri di vita utile e batterie fatte in Germania, USA o Italia. Una batteria fatta in Italia per una Tesla (segmento D), avrebbe un impatto di 28 grammi a chilometro, contro i 58 di una fatta in Cina e i 36 di batterie prodotte in USA o Germania.

Curiosamente a prendere atto che le cose nella manifattura stiano cambiando velocemente è la stessa… Joanneum Research, a pagina 129: “Per la produzione di batterie, un uso medio di energia di 163 kWh per kWh di capacità di batteria è assunto (Romare 2017, Ellingsen 2014). Studi più recenti stimano l’uso di energia per la produzione di batterie chiaramente sotto i 16 kWh (Dai 2017, Ahmed 2016), e coi futuri sistemi di produzione di batterie su scala da gigafactory questo sembra fattibile”. Se questo vi sorprende, sorprende anche noi. Perché tabelle e grafici del paper proseguono affidandosi invece alla… variabile traballante.

Dopo questa lunga disquisizione su una assunzione fondamentale, si può passare al secondo errore: la durata della vita delle celle. Quello di Joanneum Research Life e altri studi in effetti continuano a fare i calcoli su una vita utile di 150.000 chilometri per i pacchi batterie.

Appare probabile che la prossima generazione di veicoli elettrici, potendosi liberare dall’obsolescenza del fattore Euro 0, 1, 2 eccetera che per convivere con le norme in certe zone delle città e metropoli costringeva a sostituire il veicolo.

Ma questa sarà un effetto verificabile a valle, quello che interessa è che le celle dei veicoli elettrici più usati, le Tesla, per ora dicono altro quanto a conservazione di uno stato di carica che eviti alle batterie di passare al ruolo di stoccaggio e seconda vita.

Anche senza ipotizzare i livelli estremi di utilizzo che alcuni super-fan Tesla ipotizzano e in qualche caso hanno già misurato (800.000 o più chilometri con l’80% della carica ancora utile), il calo del degrado delle celle, dovuto a miglioramenti sempre più rapidi nei battery management system e nella chimica di elettrodi, elettroliti e separatori sta migliorando l’invecchiamento medio.

Inoltre, si trascura ancora l’effetto che la crescita media della capacità delle batterie avrà su un aspetto che incide sull’invecchiamento come i cicli. Supponete che una Zoe appena consegnata sia destinata a consumare in media 0,20 kWh per 250.000 chilometri di vita totale. Si saranno evidentemente consumati 50.000 kWh nella vita di questa Renault.

Il che, caricando una batteria con capacità di 50 kWh (la nuova Zoe è in effetti 52 kWh ma arrotondiamo…) vorrebbe dire sottoporre le celle a 1.000 cicli, laddove la vecchia Zoe con batteria da 22 kWh avrebbe dovuto fare circa il doppio dei cicli. Quei cicli risparmiati probabilmente saranno un altro aiuto al sereno invecchiamento dei futuri veicoli elettrici.

Il terzo errore dello studio di Joanneum Research è come in molti altri studi che arrivano a sorprendenti conclusioni favorevoli a diesel, metano, chissà un giorno uno studio brasiliano confermerà che l’alcool è il più verde dei modi di muovere i trasporti, è dare per assodato che il mix di generazione elettrica sia ingessato ed immutabile ai livelli attuali, specie là dove le rinnovabili latitano (paesi Est Europa) o il carbone ha una quota importante (Germania).

Così un veicolo acquistato in Germania nel 2020 viene considerato come destinato a correre spinto dall’energy mix di generazione del prossimo anno per tutta la durata della vita utile. L’aumento della quota delle rinnovabili? Come se non esistesse.

Tornando brevemente dallo studio di Graz che si riferisce al panorama energetico oltre Brennero allo studio italiano del Politecnico, gli esperti dell’Energy & Strategy Group hanno a pagina 344 del loro report annuale indicato i risultati dello sviluppo del loro modello per capire le conseguenze di una variazione del contributo delle rinnovabili al mix di generazione nazionale.

Per un veicolo del segmento B, una Leaf ad esempio, lo scenario attuale di emissioni totali prevede 106,71 g CO2/km: con un mix di rinnovabili al 50% della generazione italiana le emissioni scenderebbero a 94,54 e a 66,98 arrivati al 75%. Un molto ipotetico 100% di rinnovabili vedrebbe una elettrica compatta emettere 39,42 grammi di Co2 per km.

Un altro errore frequente in cui incorrono studi critici con la mobilità a zero emissioni locali è basarsi su dati ufficiali ma irrealistici per i consumi di energia dei veicoli che bruciano combustibili fossili. Joanneum Research si basa su consumi diesel di 4,7 litri per 100 km: sembrano i dati della scheda di omologazione del sito internet ufficiale di una casa, ma usando siti alternativi basati su consumi reali come Spritmonitor i valori attestati cambiano, con 6,6 litri di media per i diesel tedeschi e per 100 km e 5,8 ad esempio, per una Golf diesel.

All’apparenza l’istituto austriaco avrebbe correttamente inserito 620 grammi di emissioni indirette nei valori di riferimento delle emissioni dei veicoli alimentati a gasolio, che si riferiscono a raffinazione e trasporto con media europea.

Si potrebbe aggiungere che i valori probabilmente dovrebbero essere aggiornati, se si trattano i contributi indiretti alle emissioni in altri contesti: dove c’è forte estrazione di idrocarburi con fracking si tende sempre più a bruciare il gas naturale che emerge insieme al petrolio (flaring). La Banca Mondiale ha calcolato che su scala globale nel 2018 sono stati bruciati 145 miliardi di metri cubi in questo modo, quello che l’America Latina avrebbe potuto usare in un anno. Non certo un modello di efficienza e certo un fattore impattante sulle emissioni globali.

In ultima analisi, lo studio di Joanneum Research Life è un altro campionario di come un lavoro nella selezione dei dati possa creare le premesse per lanciare un salvagente ai modelli convenzionali e ridimensionare i benefici dei modelli elettrici, azzerando dove possibile anche il potenziale di miglioramento di una tecnologia che galoppa là dove quella della propulsione termica sta frenando. Nessuna meraviglia che Hans-Werner Sinn lo abbia apprezzato.


Credito foto di apertura: AUTO21