Nei conti dell’auto elettrica cinese c’è di tutto: dai miliardi, al rosso, alle cambiali
Il mondo dell’auto elettrica nel primo mercato globale, quello cinese, assomiglia sempre più a quello convenzionale, tra chi festeggia e chi vede rosso (anche senza i tweet di Trump)
Il settore automotive nel corso dei decenni ha esposto numerose volte esempi di gruppi auto e della catena della fornitura che guadagnavano soldi a palate e altrettanti, o più verosimilmente anche di più, che invece i capitali li bruciavano. L’era delle auto elettriche sta fornendo con regolarità segnali di appartenere a pieno titolo a questa narrativa.
Lo scorso 21 agosto BYD Company Limited, fino al 2018 il gruppo globale che costruiva più veicoli elettrici (attualmente preceduto da Tesla) ha reso pubblici i suoi conti. Il primo semestre 2019 si è concluso con un utile netto per gli azionisti cresciuto su base annua del 203,61%. Gli azionisti BYD hanno infatti guadagnato 1.454.573.000 yuan (circa $205 milioni): un importo triplicato rispetto allo stesso periodo 2018.
Anche i ricavi sono cresciuti, del 14,84% per cento su base annua a 62.184.263.000 yuan rispetto ai precedenti 54 miliardi. La quota relativa ai veicoli (come noto BYD è anche il maggior produttore di autobus elettrici e un protagonista nel settore delle batterie di trazione) è salita del 16,27% a quasi 34 miliardi di yuan, dei quali circa 25 relativi a mezzi con la presa.
Il gruppo di Shenzhen, fino a pochi anni fa noto soprattutto perché il miliardario Warren Buffett ci aveva investito, ormai grazie ai successi in casa sta prendendo le misure a una possibile espansione globale (guerre commerciali permettendo), come ci ricorda la presenza nell’organico di firme come l’ex-Audi Wolfgang Egger, autore del concept della foto di apertura.
Intanto in casa, malgrado la frenata complessiva e drastica del mercato dei veicoli privati e commerciali cinese, BYD ha venduto in sei mesi 228.072 veicoli. La crescita è stata solo dell’1,59% perché al +94,5% dei veicoli con la presa venduti (145.653 in totale) hanno fatto eco 82.419 consegne di mezzi convenzionali, circa il 45% in meno.
I cosiddetti NEV in Cina sono l’unico settore trainante, con 614.000 pezzi prodotti e 617.000 venduti, una variazione positiva del 48,5% e 49,6% rispetto al 2018. In questa oasi di crescita e di profitti la quota di mercato BYD è passata dal 20% dei primi sei mesi 2018 al 24% del corrispondente periodo 2019, secondo i dati CAAM, la “Confindustria” cinese dell’auto.
Che nel mondo delle auto elettriche si possa guadagnare come nei migliori momenti d’oro dell’automotive convenzionale lo avevano suggerito anche i conti di uno dei maggiori protagonisti: Contemporary Amperex Technology Co., Ltd. (meglio nota come CATL), il più grande produttore e fornitore di batterie agli ioni di litio per uso veicolare.
In una comunicazione alla borsa di Shenzhen, dove il gruppo è quotato, CATL ha sottolineato un profitto netto di oltre 2 miliardi di yuan, circa $290 milioni, equivalente ad una crescita percentuale su base annua che sfiora il 150%: una svolta dopo i risultati deludenti di primavera.
Le notizie positive sono il risultato di un allargamento della clientela su base globale (CATL sta aprendo un sito anche in Europa, dopo aver messo nel suo portafoglio clienti molti marchi premium) miglior controllo dei costi e soprattutto al boom della domanda di pacchi batterie per auto elettriche. L’azienda ha una quota di mercato del 41%, con una capacità che nel 2018 aveva raggiunto 23,4 GWh.
Naturalmente operare sul primo mercato globale per le auto elettriche è un fattore necessario ma non sufficiente garanzia di ottenere risultati. A maggior ragione in un periodo tumultuoso come l’attuale in cui il quarantacinquesimo presidente americano ha deciso venerdì di ordinare ai gruppi statunitensi di uscire da quel mercato appellandosi al testo dell’International Emergency Economic Powers Act, legge del 1977 mirata a contrastare nazioni che supportano il terrorismo.
Peraltro dopo due soli giorni, cioè stamattina nel corso del vertice G7 a Biarritz, Donald Trump pare averci ripensato, ritenendo di non dover più obbligare i gruppi americani ad abbandonare il mercato cinese. O forse no, chi può stare al passo di quel diluvio di esternazioni e tweet?
Sarebbe peraltro interessante immaginarsi l’ex-star dei reality show spiegare a Warren Buffett perché debba liquidare il suo investimento in BYD o a Elon Musk che la sua Gigafactory a Shanghai, da cui dipenderà la sopravvivenza di Tesla, sia da chiudere.
Interventi dell’inquilino della Casa Bianca a parte, in realtà nel settore dell’auto elettrica quest’anno in particolare anche sul mercato di maggior successo, nel quale si prevede le vendite di NEV (new energy vehicles) possano passare da 1.300.000 del 2018 a un milione e mezzo la vita non è facile.
Non lo è per i gruppi tradizionali ma non lo è nemmeno per le startup, neanche per quelle dalle fondamenta apparentemente più solide. Come NIO, alla cui creazione aveva contribuito un top manager come lo scomparso Martin Leach, ben noto anche in Italia.
Secondo quanto riporta il sito specializzato Gasgoo, il personale di NIO a settembre è destinato a scendere dagli attuali 9.000 dipendenti a poco più di 7.000, con tagli in particolare nei settori legali, risorse umane e finanza, mentre resterebbe immutato lo staff di ricerca e sviluppo.
Non è stato un anno facile finora per questa startup globale, nata ambiziosamente con sedi sparse tra Cina, California e Germania. Dopo aver perso $1,4 miliardi lo scorso anno, il 2019 ha portato un calo delle vendite del suo primo modello, il SUV ES8, che finora all’apparenza non è bastato a compensare il lancio a primavera del nuovo SUV a cinque posti ES6.
All’effetto della riduzione dei sussidi governativi entrato in vigore a fine giugno si sono aggiunti alcuni pubblicizzati casi di malfunzionamenti delle batterie e dei sistemi ADAS, e un richiamo volontario di circa quattromila ES8 per ovviare ad un possibile problema alle batterie. Nel frattempo le consegne di ES6 e ES8 nel 2019 a fine luglio erano arrivate a 8.739 veicoli, su poco meno di 20.000 che hanno trovato clienti dall’inizio della produzione.
Proprio la produzione era uno dei punti interrogativi di NIO: attualmente i due SUV elettrici sono prodotti dall’impianto JAC Motors nella città di Anhui. I vertici della startup volevano liberarsi dell’ipoteca di un partner esterno, che lavora con joint venture anche per rivali diretti dei suoi modelli.
Ma la fabbrica di Shanghai è sparita nelle migliori intenzioni del passato, e NIO appare aver trovato un supporto da un investimento rilevante (10 miliardi di yuan, circa $1,45 miliardi) in un accordo con Beijing E-Town International Investment and Development Co. Ltd., una società pubblica.
Insieme la nuova joint venture prevede di creare uno stabilimento nell’area a sud di Pechino, che sarà in grado di costruire i prossimi modelli NIO. Il problema sembra essere il fattore tempo: la produzione nel migliore dei casi per la nuova piattaforma elettrica dovrebbe uscire nel 2021, e non è chiaro che da oggi a quella data la società riesca a tenere duro.
Nelle scorse settimane (prima delle ultime uscite del governo di Washington) le voci di stampa nazionali hanno più volte suggerito che NIO potrebbe essere costretta a togliere per cominciare il titolo dal listino di New York, ripiegando magari su una cinese.
Il settore dell’auto elettrica, col successo di protagonisti relativamente nuovi come BYD o Tesla, che in Cina è stata accolta positivamente, non premia vincitori solo per la loro immagine di relativa novità, come sta dimostrando il caso di NIO. Molti ostacoli peraltro si presentano anche per i gruppi auto tradizionali che hanno intenzione di recuperare il terreno perduto, tra i quali pochi, come BAIC, SAIC e Geely sono ben piazzati per emergere.
In effetti per altri la fase di stagnazione dell’economia sembra destinata a chidere un pedaggio e forse a chiudere molti progetti ambiziosi. Malgrado i tassi di interesse bassi il credito privilegiato in Cina riguarda le aziende pubbliche e questo ha portato all’esplosione di pagherò, di cambiali commerciali che secondo dati ufficiali risalenti a febbraio ormai equivalevano a $211 miliardi di fondi detenuti dalle aziende di ogni dimensione, un terzo più del totale dello stesso mese del 2018.
Secondo quanto ha scritto pochi giorni fa il corrispondente locale del New York Times, ad oggi il più grande emettitori di queste cambiali come pagamento ai fornitori risulta essere Evergrande: per l’equivalente di circa $20 miliardi. Si tratta di un colosso attivo in molti settori, principalmente l’immobiliare e la sanità, ma che ha anche il calcio e l’auto elettrica tra i propri interessi.
Quelle cambiali commerciali sono solo un quinto della pila di debito di Evergrande che oggi, dopo i progetti di rilevare la sfortunata startup Faraday Future, è partita con progetti che sgorgano dalla proprietà di NEVS, l’erede della fallita Saab, e da collaborazioni a sorpresa come quella con la marca svedese di supercar Koenigsegg.
Secondo quello che scrive il quotidiano di Hong Kong South China Morning Post presto Evergrande investirà altri 6 miliardi di yuan ($846,4 milioni), malgrado una perdita di quasi due miliardi di yuan nel primo semestre 2019 e malgrado altri 14 miliardi di yuan già investiti in passato nel settore della mobilità elettrica, per ora con una produzione che nelle classifiche delle vendite non si vede, anche perché la produzione della NEVS 93 è partita a fine giugno.
Ma poche ore fa il gruppo ha rilanciato, promettendo di presentare un modello elettrico al prossimo Salone Auto di Ginevra, e dicendo di mirare a diventare entro metà degli Anni ’20 addirittura il primo gruppo produttore cinese, o forse mondiale, di auto elettriche.
Forse il board Evergrande è fiducioso che anche i fornitori globali saranno presto contenti di ricevere come pagamenti quelle cambiali commerciali che stanno diventando così comuni in Cina.