E per Elon Musk arriva (non inaspettata) la tegola delle tegole Tesla Energy
La catena Walmart fa causa per i difetti degli impianti fotovoltaici Tesla; un pessimo tempismo mentre la divisione energia a Buffalo langue e la grid parity da fotovoltaico si affaccia in Cina
Come è avvenuto più volte in passato, ad una buona notizia per Tesla subito si accavalla un episodio imbarazzante. Stavolta la buona notizia è la recentissima conferma che la Gigafactory in costruzione nella nuova zona franca di Lingang ha avuto il benestare degli ispettori di Shanghai.
L’investimento per la prima parte del progetto da 16 miliardi di yuan, circa $2,3 miliardi è quindi sulla strada buona per il completamento entro fine 2019, oltre le più rosee aspettative. Ma è troppo presto per Elon Musk di pensare come spendere su… Marte il denaro che le Model 3 e soprattutto le prossime Model Y costruite in Cina gli faranno incassare
Si è infatti appena scopetto che molto prima, anzi subito, Musk dovrà porre rimedio ad una grana creata dal zoppicante business del fotovoltaico. Il colosso degli ipermercati Walmart infatti ha citato in tribunale la sussidiaria Tesla Energy.
I pannelli solari costruiti ed installati dalla ex-Solar City, rilevata con gran battage mediatico tre anni fa, sui tetti di almeno sette supermercati avrebbero determinato corti circuiti e principi di incendio. Episodi che non hanno ovviamente nessun rapporto coi sempre popolari (sui social media) casi di incendio di pacchi batterie di modelli Tesla.
Non si sono avute finora notizie di casi di problemi nello stoccaggio di energia da parte di Walmart. Peraltro le celle utilizzate da Tesla sono differenti nei due rami industriali: con chimica NCA quelle automotive, NCM quelle per l’energy storage.
Tesla Energy ha la sede non in California e Nevada come il ramo auto ma nell’area di Buffalo, a nord di New York. Si tratta di un impianto molto chiacchierato e che crea a comunità e istituzioni locali (che ci hanno investito con massicci incentivi e sgravi) costanti preoccupazioni.
Se nel corso del 2019 Musk ha riconosciuto, nella sua conference call della scorsa primavera ad esempio, che la fabbrica non attraversava un periodo brillante, con la solita determinazione aveva promesso un imminente cambio di marcia e un rilancio industriale.
Proprio a Buffalo è previsto che vengano prodotte le celle solari delle meraviglie, ormai arrivate alla terza iterazione in laboratorio; una gestazione spiegabile anche con la promessa alla clientela di 30 anni di garanzia.
Saranno costosi ma brillanti prodotti che nasconderanno perfettamente la componente fotovoltaica, incluso in imitazioni di coppi ed embrici toscani che solo ad attento esame e con la giusta inclinazione si potranno riconoscere come celle solari invece che tegole. Con un prodotto simile, tra gli investitori non è mancato chi ha ceduto alla tentazione di credere all’imminente rinascita di Tesla Energy, un tempo tra i principali installatori americani.
Ma come è tipico delle aziende di Musk la divisione ha oscillato spesso nel suo business model, con smantellamento della forza vendita (inclusa quella del porta a porta), rinunciando alla vendita nei centri commerciali della rete Home Depot e puntando tutto sulle vendite online. La stessa falcidie di personale ha riguardato anche gli installatori.
Così verrebbe da immaginare staff all’ultima settimana di lavoro o con in mente un colloquio per la prossima assunzione in piedi su un tetto e forse con poca voglia di dedicare un’attenzione certosina all’ultimo impianto. Ma le lamentele di Walmart non derivano da installatori poco motivati: chiamano anzi in causa difetti, protocolli e procedure carenti.
Intanto con velocità repentina un leader del mercato americano del fotovoltaico è diventato l’ombra di se stesso e i risultati si annunciano come i meno lusinghieri dal 2012. Prima del 2019 Tesla Energy/Solar City aveva installato nel peggiore dei casi 73 Mw a trimestre. Nel primo trimestre ne aveva installati solo 47, scesi ulteriormente a 29 Mw nel secondo trimestre, come ricorda la nota ufficiale della casa di Palo Alto.
Non è solo un problema privato di Tesla che si trova a fronteggiare rivali nazionali come SunRun, che mentre i californiani installavano 29 Mw replicavano con 103 Mw. Come detto le istituzioni locali a Buffalo e New York hanno protetto le loro concessioni e sussidi alla casa californiana chiedendo garanzie sulla produzione e sulla mano d’opera. Con un personale che attualmente arriva a malapena a 700 persone, ad aprile del 2020 Tesla si troverebbe a pagare una prima penale di $41,2 milioni.
Può darsi che la sfuggente tegola fotovoltaica delle meraviglie la prossima primavera sia ormai pronta, ma nel frattempo oltre alle linee di produzione e ai quadri aziendali, Tesla sembra dover ricostruire molto altro. Un halo effect che nel settore del fotovoltaico non si è manifestato come in molti nel 2016 (anno della presentazione della divisione solare) si aspettavano.
All’epoca, come scriveva Darrell Etherington su TechCrunch, Tesla era ancora considerata la Apple del mondo green. E quindi si riteneva che potesse beneficiare dell’halo effect. Dopo tutto è il fenomeno che fa sì che chi compra gli iPhone tenda ad acquistare un Mac e viceversa.
Con l’acquisizione di SolarCity appariva chiaro il percorso: cliente con Model X o Model 3 in garage con villa o villetta dotata di tegole fotovoltaiche che ricaricano la Tesla dal wallbox ogni sera. Tesla sarebbe anche stata la prima società a creare un halo effect per l’acquisto di prodotti ad alto prezzo, come veicoli o impianti di energia rinnovabile sono.
Ma quel percorso Tesla non è riuscita a svilupparlo come prevedeva la narrativa. Tanto è vero che proprio il tema del prezzo è apparso poche ore prima della notizia della causa di Walmart con l’annuncio di una nuova strategia di vendita, peraltro presa di peso dalle soluzioni più attraenti per un pubblico non certo di ultra-benestanti.
Quello che, anche dal sito internet in italiano, Tesla propone è di dotarsi di un nuovo impianto fotovoltaico senza un contratto a lunga scadenza ma pagando una piccola rata mensile, non ancora rivelata per il mercato europeo ma che in America per la più piccola delle installazioni va dai $50 di stati come Arizona, New Mexico e New Jersey al massimo di $65 per la California.
L’idea è di consentire al cliente di sfuggire all’importo consistente iniziale per allargare la platea di clienti Tesla Energy per quando le tegole fotovoltaiche saranno finalmente pronte. La scelta è tra tre tipi di impianti disponibili: il primo da 3,8 kW (produce dagli 8 a 11 kWh al giorno), il secondo da 7,6 kW (produzione tra 16 e 23 kWh) e l’ultimo da 11,4 kW (media 24/34 kWh).
Rimuovere l’impianto dopo aver smesso di pagare costerà al cliente $1.500, e considerato che in America il meno oneroso dei tre costa incentivi compresi circa $7.000 c’è da chiedersi se la tattica sia davvero attraente rispetto all’acquisto convenzionale. Probabilmente non lo sarà e specialmente se il mercato dovesse tornare ad esplodere.
E qui vale la pena di chiedersi se la divisione Tesla Energy sarà pronta per quella fase, che è meno distante di quanto si pensi. Sul primo mercato globale del fotovoltaico, tanto per cambiare quello cinese, la crescita della capacità annua del solare prevista tra 2015 e 2040 è del 7% l’anno.
Un recentissimo paper di un gruppo di ricercatori dell’università svedese di Mälardalen diretto da Jinyue Yan e tra i quali c’era l’ingegnere umbro Pietro Elia Campana, ha accertato che in ben 344 città cinesi, gli impianti solari fotovoltaici ormai sono in grado di generare e vendere elettricità a prezzi inferiori della rete anche senza includere i sussidi.
E andando oltre le più rosee previsioni, addirittura nel 22% dei casi in quelle città le rinnovabili basate sul sole potrebbero produrre a prezzi più bassi del carbone che fornisce ancora energia alla maggior parte del sistema elettrico nazionale.