AUTO-GOL

Partire col piede giusto

Venerdì scorso Tesla Motors ha annunciato che Peter Hochholdinger è diventato il nuovo capo della produzione, colui che ha il sovrumano compito di trasformare in realtà l’obiettivo di quintuplicare la produzione in soli due anni fino a raggiungere il mezzo milione di vetture immesse sul mercato.

Un piano che accanto all’aumento dei volumi delle Model X e Model S prevede il lancio della decisiva Model 3, la berlina compatta che ha già ricevuto 400.000 prenotazioni e che si prevede di far correre silenziosamente alla fine del 2017 sulle highways americane.

Dopo ventidue anni in Audi, Hochholdinger trasloca nella Silicon Valley dopo aver vissuto tappe professionali dalla Germania al Messico: per la casa dei quattro anelli ha seguito anche la creazione e sviluppo del nuovo stabilimento centro-americano di San José de Chiapas. Un’esperienza che potrebbe servirgli molto prima di quanto il manager tedesco potesse aspettarsi. Infatti appena insediato ha già la prima grana (indiretta) da affrontare. Il piano di crescita dai ritmi febbrili previsto da Elon Musk ha da mesi messo sotto pressione tecnici, progettisti, fornitori.

E ieri il San Jose Mercury News, il quotidiano della Silicon Valley, ha pubblicato un articolo molto critico su procedure e sistemi usati per ingrandire e modernizzare lo stabilimento Tesla Motors di Fremont. Louis Hansen, che firma il pezzo, sottolinea come l’urgenza del costruttore americano di ingrandire e aggiornare la fabbrica abbia portato i fornitori e subappaltatori a servirsi di pratiche ai limiti. Anzitutto per quanto riguarda il personale. E cita il caso dello sloveno Gregor Lesnik, che un anno fa dopo tre mesi di lavoro per un subappaltatore abbia subito un grave infortunio, con commozione cerebrale e frattura di entrambi gli arti inferiori, che lo ha portato ad aprire un contenzioso legale con il subappaltatore stesso, ma anche con il contractor e con la Tesla Motors stessa.

Dall’inchiesta di Hansen emerge che il nuovo reparto carrozzeria di Fremont è stato costruito da 140 operai tutti provenienti dalla ex-Jugoslavia. Tutti quanti abitualmente impegnati per giornate di dieci ore sei giorni la settimana. Il Mercury News riferisce che la maggior parte degli operai sloveni e croati era contento della propria paga. Peraltro per portare a termine lo stesso identico lavoro operai americani sarebbero stati pagati $52, mentre in California il salario orario minimo di $10 è poco meno di quanto pagato dai subappaltatori.

Abituati alle violazioni dei minimi salariali specie nel settore agricolo, in questo anno elettorale in cui il candidato Donald Trump ha dichiarato guerra a immigrati e lavoratori irregolari, forse quello che più colpisce gli americani è la disinvoltura sui visti per entrare nel paese. Molti se non tutti gli operai reclutati da una società subappaltatrice slovena chiamata ISM Vuzem avevano visti B1/B2, visti da non-immigrante per turismo ed affari. Un tipo di visto che vale anche per lavori o contratti di supervisione e direzione, ma non certo per installatori di tubi o saldatori.

Nè i dipendenti della ISM Vuzem potevano aspirare ai visti H-1B che le società della Silicon Valley o dei cluster tecnologici cercano per i loro  dipendenti con alte o altissime qualifiche professionali. Come, probabilmente, anche alcuni dei 6.000 dipendenti che Tesla Motors stessa ha nelle sue file nell’area della Baia di San Francisco. Tra i quali però non c’era certamente alcuno degli sloveni o croati al lavoro a Fremont. E’ quello che la compagnia americana ha detto al processo, con la precisazione dei legali che i danni richiesti da Gregor Lesnik sono un problema tra lui e il subappaltatore.

In effetti Tesla Motors non ha nemmeno direttamente affidato il lavoro all’azienda di cui era dipendente l’operaio infortunato. I lavori di rinnovamento dell’area verniciatura erano stati affidati alla società tedesca Eisenmann, che a sua volta si era affidata alla ISM Vuzem. Nel 2003, riferisce l’inchiesta di Hansen, la Eisenmann aveva suscitato le ire dei sindacati americani quando aveva portato in Alabama operai polacchi per completare un’altro stabilimento di verniciatura, quella volta per conto di Mercedes-Benz.

Il nuovo capo della produzione Hochholdinger, forse, di casi come questi ne ha già visti altri durante i suoi anni di attività professionale in America Centrale. Per chi pensa che fosse necessario avere un uomo dell’auto tradizionale, il tutto sommato piccolo caso umano di Gregor Lesnik lascia pensare che davanti a piani rigidi e dai tempi tiratissimi oggi non ci sia poi tanta differenza tra le grandi società della tecnologia ciclicamente coinvolte in scandali e i vecchi padroni delle ferriere di stampo taylorista.